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Racconto n° 1643
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Diario di un vigliacco
Ma se un giorno, uno qualsiasi di quelli che entrano come le perle nella collana della mia esistenza, capirò di non poterti offrire il Sole a colazione, mi alzerò da questa tavola imbandita e scenderò nello scarico giù fino al Grande Collettore che mi restituirà al mare da dove tutti veniamo.
Com'è che mi trovo qui adesso a pensare di rischiare di finire giù per il cesso? Com'è potuto accadere, quale maleficio porto dentro di me?
Il malumore non riesce ad essere mitigato neanche da una di quelle belle giornate che tanto abbiamo amato, quelle che ci inducevano a lunghe passeggiate anche metropolitane, quando ce ne andavamo in giro su e giù per i marciapiedi affollati di gente come fossero prati rasati delimitati dalle siepi di bosso, dietro le quali consumare frettolosi petting che non potevano aspettare. Con quell'urgenza che consuma foreste intere nella fornace del desiderio, con quella necessità che muove le mani per farne strumenti autonomi di un piacere senza governo.
Quei giorni che cominciavano lenti e pigri sul letto enorme. La luce chiara che penetrava le fessure della serranda e disegnava scalette brillanti sulle lenzuola di raso nero, unica civetteria - noire - per un amore altrimenti solare e trasparente. E su quelle lenzuola mi piaceva stagliare il tuo corpo dalla pelle chiarissima che per contrasto sembrava ancora più chiara ma non pallida. E vederti occuparlo tutto, stesa di fianco, le belle gambe a compasso, i seni rovesciati di fianco con un capezzolo schiacciato sotto il corpo e l'altro che anelava di raggiungerlo.
Potevo guardarti per lunghissimi minuti e perlustrare ogni centimetro della tua carne fino agli occhi chiusi, a quelle palpebre che mi nascondevano le iridi verdi che così spesso mi hanno penetrato sino ad affondare nella palude che mi porto dentro mentre ti osservo inattivo.
Ora quel corpo mi sembra lontano, un'icona da tenere sul comò. Ora ti guardo dormire dall'alto del sonno della mia ragione o forse del suo risveglio. Ora una vecchia canzone mi fa ridere un occhio e piangere l'altro: mi dispiace devo andare, il mio posto e lì... E tu dormi così distante dalla mia vigliaccheria mentre in silenzio preparo le mie cose e guardo questa stanza che non ha più alberi ma pareti e una porta da attraversare per uscirne.
Uscirne con la mia 48 ore da travet, spazzolino, lozione crema da barba, camicia mutanda.
Tu invece arrivi sempre con la tua borsa che sembra contenere pochissimo, ma dalla quale riesci a tirare fuori l'incredibile mentre ti guardo e tu descrivi come fosse il campionario di un rappresentante. - Ecco due jeans, una maglia pesante, una camicia elegante, un ricambio, la trusse, la borsetta per il bagno, un maglione, due collant, un'autoreggente. Ah, ti ho portato pure questi due libri. Mi sono piaciuti molto, vorrei che li leggessi... - .
Ma che te ne fai di tutta quella roba? Per una notte, una sola. Portarti fuori senza potere scegliere una bella sera tiepida, un tavolino coi cibi e i racconti di un mese, quelli sfuggiti alle tormentate notti telematiche dove ogni parola è preziosa e tanti dettagli si saltano. Stanchezza, receptionist ineccepibili, stanza, bagno, doccia, letto.
E lì si scioglie il grumo gretto della cronaca di poveri amanti e comincia a fluire il fiume che ci trvolge sempre che abbiamo salvato dalla banalità. Rinuncio ormai con piacere alla presunta lascivia dello spogliarti. Perché il piacere non è quello di spogliarti dei vestiti ma quello di spogliarti della tensione, del desiderio represso, dell'assenza di me. E di lasciare che lo stesso faccia tu. E ciò avviene dopo lunghe carezze silenziose, lasciando alle mani il compito di parlarsi.
Lo sai cosa mi piace. Lo sai come mi appassiona cominciare a sfiorarti le caviglie e percorrere tutta la periferia del tuo corpo evitando accuratamente tutti i punti nevralgici dove le nervature si incrociano come le sopraeleviate in una città del futuro. Poi la risalita verso la sommità dei tuoi seni, sentirti mentre trattieni il fiato, mentre la temperatura della tua pelle sale di mezzo grado e la tua pelle si increspa come un broccato. E le mie labbra cominciano a sentire il bisogno di posarsi su di te come un migratore stanco che ha avvistato le coste dell'Africa mentre ha ancora i ghiaccioli siberiani tra le piume. E si posano tra i tue seni, scivolano verso il tuo ventre, si avvicinano alle tue labbra chiuse, leggermente gonfie. E le aprono per trovare l'umidità che riempie la stanza di una fragranza dolce e acre che mi inebria.
E le tue mani in movimento su di me, mi sfiorano il viso. Il collo, le spalle, si ancorano alle mie natiche, cercano il mio sesso per salutarlo dopo giorni di assenza.
E quando ci mettiamo uno sull'altra o una sull'altro, sento il calore della tua bocca sul mio inguine e quello del tuo sesso sulle mie labbra. E la punta del mio naso affonda tra le tue natiche mentre la punta della mia lingua ti beve, mentre il mio sesso trova ospitalità nel bagno turco della tua saliva copiosa.
E non penso più a niente, ti sento soltanto, cancello il film dei lunghi viaggi, delle rinunce, dei dissapori malevoli, dei sensi di colpa dei - papà cosa mi hai portato stavolta - , della ormai raggiunta estinzione del regno animale di peluche.
Divento il tuo scrigno, quello dove ti rinchiudi come una perla luccicante e severa, semplice nel suo splendore, perfetta nella sua sfericità.
E la notte passeggia senza fermarsi e raccoglie i nostri gemiti, le grida del nostro piacere. E accoglie nelle sue ultime ore un sonno leggero (il mio) e profondo (il tuo).
Poi mi sveglio e questa volta le mie spalle sono curve perché ti ho mentito. Non mi troverai al tuo risveglio. Neanche un biglietto, perché un vigliacco deve saperlo essere fino in fondo. Non ci sono vie di mezzo. Che fuga è quella che si muove piano? Che coltellata è quella che fa solo un graffio? Che suicidio è quello col bicarbonato?
Addio amore. Torno, rinuncio, abbandono, vado spavaldo verso la mia distruzione e mi guadagno un paradiso che mi fa paura in cambio di un inferno che conoscevo come le mie tasche.
Addio... addio... addio...
- Addio amore mio - ... parole pesanti che mi giungono da lontano e che appartengono a un mondo senza dimensione come quello del risveglio. La 48 ore posata ancora sulla sedia, gli abiti sparsi a terra. Sono ancora tra le lenzuola di raso nero, nudo come un verme mentre la mia radiolina sveglia si è messa in moto da sola e qualcuno canta Addio Amore Mio...
Mi giro di scatto e tu sei li che dormi serena così come ti ho sognata, le belle spalle scoperte. Tiro su il lenzuolo, te lo sistemo fino al collo, ti carezzo la testa e sorrido. Poi mi alzo e comincio a vestirmi.
Esco in balcone e chiudo gli occhi per la troppa luce. Sul davanzale i gerani rampicanti che tanto amiamo. Rientro ed esco dalla camera. Il salone è come lo abbiamo lasciato ieri sera quando gli amici sono andati via. Nel camino la cenere è ancora calda e la grande casa è ormai piena di luce. La nostra casa.
Torno nella camera, mi siedo sul bordo del letto e comincio a cantarti una canzone piano piano. La voce roca dal troppo fumo ti sveglia e mi sorridi. Ti abbraccio e non vorrei staccarmi più. Ti bacio e penso a noi. Me ne andrò, ma solo per quattro ore. Ci vediamo a pranzo amore. Torno presto oggi. Tornerò sempre. Non fuggo più. Eri la mia meta. Ora sei il mio presente. Solo nei sogni finisce in un altro modo.

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