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Racconto n° 2339
Autore: Giulia Lenci Altri racconti di Giulia Lenci
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Ottobre
- Se volesse un goccio di questo passito, signorina... -
- Ma cosa vuoi, ubriacarla? Lo sai che non beve... -
Lei ride. Che bei denti. Bianchissimi, perfetti. Come la bocca. Perfetta. Due labbra che si chiudono a cuore.
- La ringrazio, ma non bevo. Però magari il profumo... -
Le porgo il bicchiere. La sua mano si appoggia sulla mia. Tremo.
- Ma è meraviglioso! Direi... mi ricorda dei fiori... Fiori bianchi. -
- Bravissima! - esclamo - E' proprio così. Il passito regala aromi... -
- Per carità basta! Non dargli corda o comincia una lezione sul vino! -
Lei ride. Stupenda. Che pelle perfetta. Liscia, finissima. Che lineamenti delicati. Sembra dipinta.
- Con mio padre è così. Lui ha due manie: il vino e l'inchiodo. -
- Inchiodo? -
- Sì sì. Batte di qua, batte di là, non capisci mai cosa stia facendo. -
- Che bravo, un falegname? -
Mi schermisco. - No, non proprio. Mi arrangio, tutto qui. -
- Per carità non fare domande! -
Asino.
Ride ancora, lei. Adesso un lieve colore le arrossa il volto. Sublime, con quegli occhi che luccicano come stelle.
- Comunque la cena l'ha preparata il papi e devo dire... -
- Lei? Ma allora è davvero bravissimo! -
Mi inchino leggermente. - Grazie, signorina, troppo buona. Vede... -
- La carità, la carità! Altrimenti comincia a elencare gli ingredienti... -
Ciuco.
- Oh, ma a me la cucina interessa tantissimo! Ad esempio, quelle acciughe squisite... -
- Smetti! Per carità... -
- Le ho lavate con l'aceto... -
- Ecco il trucco! Ma sa che... -
- Basta basta, per carità! -
Ride con dolcezza, lei. Ma quanto è bella. Allunga un braccio candido, a posare una carezza sulla guancia di quel quadrupede.
- Se ho ben capito, abbiamo terminato, pa'. -
- Solo il caffè, se volete. - rispondo guardandola.
- Oh, sì, il caffè, grazie. Avrà qualcosa di speciale, ci scommetto. - risponde con un sorriso tutto per me.
- Ha indovinato, sa? -
Mi alzo senza aggiungere altro, annuendo e restituendole il sorriso.
- Ah, ma allora è un flirt! - raglia mio figlio.
- Mi piacerebbe corteggiare questa splendida creatura, ma non ho più l'età, purtroppo... -
- Resta un uomo molto affascinante, sappia... - sussurra lei.
Lui raglia, raglia, raglia.
Spezzo il bastoncino di cannella nella moka e attendo, solo in cucina, che il caffè borbotti. Guardo fuori, dove la notte si agita nelle folate d'aria e pioggia. Loro ridono, parlano a bassa voce. Lei. Lei è di là che attende il mio caffè. Lei, che poi andrà con mio figlio. Un uomo. Come ero io, tanto tempo fa. Un tempo così lontano da crederlo un sogno, ormai. I vetri riflettono il volto di un vecchio dai capelli un po' scomposti, che alza una mano a ravviarli lentamente, e ora la allunga di lato. Spengo il caffè. Riempio le tazzine, mescolando con un altro bastoncino di cannella. Prendo la panna montata dal frigorifero e su ogni tazzina ne metto un ciuffo. Quindi torno in sala.
- Che profumo... - dice lei.
- Vediamo vediamo. Con la panna? E che c'è di strano? -
Inutile gettare perle ai porci, anzi, ai somari.
- Scommetto che la sorpresa è nel gusto. - dice lei guardandomi.
- Indovinato. - rispondo.
Lei assaggia pensierosa, in silenzio.
- E' un caffè normale, papi, che c'è di strano? -
Come può essere mio figlio, quell'équide?
- Ma neanche per idea! C'è... c'è... cannella! - mormora lei, avvicinandosi poco poco a me.
- Semplicemente bravissima. - dico chinando la testa.
Lei ride. Dolcissima. Ha capelli castani lunghi fino alle spalle, morbidi, lucenti, con sfumature dorate. Nei suoi occhi riconosco le stesse pagliuzze che brillano guizzando da me a mio figlio.
- Piove... - dice lui, passando una mano tra quei capelli, attirandola a sé.
Lei sorride e non parla.
Mi ricordo. Ricordo cosa significava la pioggia, tanto tempo fa, anche per me. Ora significa dormire a fondo. Se riuscirò a prendere sonno, stanotte.
Dapprincipio lo negavo a me stesso. Mi vergognavo. Un giorno mi sono fermato a riflettere. O smetto o continuo, ho pensato. E detto così, sembra una stupidaggine. E' stata una decisione grave. Come dice mio figlio, batti qua batti là, infine lo specchio era pronto. Non potrei confessarlo a nessuno, nemmeno sotto tortura. Ma non è proprio lo specchio, la mia tortura? Credevo fosse un regalo da fare a me stesso, alla mia solitudine, alla mia vecchiaia. E' la mia punizione. Perché oramai è irresistibile il suo richiamo. A volte, all'inizio, tentavo di resistere, di dirmi no, non andare. Ma era peggio, perché poi mi tormentavo pensando a ciò che avevo perso e mille immagini mi impedivano il sonno. Il giorno dopo, mio figlio mi prendeva in giro.
- Ehilà, che faccia. Sembra che ci hai dato dentro tu, stanotte... - e rideva.
Non ho più commesso quell'errore. Se volevo davvero rimediare, era semmai lo specchio, da distruggere, non il mio sonno. Ma non l'ho mai distrutto e a poco a poco mi sono abituato a sedermi lì davanti. E, dopo, a dormire profondamente.
Mi rincresce ammetterlo, ma mi somiglia tanto. Mio figlio. Mentre lo spio, mi pare di rivedere me stesso alla sua età, quando gli ardori non erano un problema. Persino il sorriso che ha nell'avvicinare una donna, è il mio. Un sorriso garbato e seducente. Sono rimasto esterrefatto, la prima volta, nel vedere come la spoglia. Comincia dalle scarpe, togliendole adagio, prima una poi l'altra, baciando i piedi, strappando risatine. Quindi sfila le calze, con la lentezza esasperante che mi rendeva sicuro della mia preda. Bacia le ginocchia e salendo lento accovaccia il viso tra le gambe, restando immobile, mentre lei chiude gli occhi e abbandona la testa indietro, languida. Ricordo quelle dita lunghe, affusolate, tra i miei capelli, sulla nuca, e i brividi che scendevano nella schiena. La spoglia del tutto in un crescendo veloce, svestendosi per ultimo, sempre fissandola, mai staccando gli occhi dal suo sguardo implorante. Quando l'ho visto immergersi in lei, ho faticato a trattenere un gemito. L'emozione era forte, come partecipassi in prima persona. Anche i movimenti riconosco come miei. Sono elastici e lenti, violenti quanto basta e teneri alla fine. Solo alla fine. E' vero, mi è venuta l'idea dello specchio quando ho conosciuto lei. Ma anche per lui è qualcosa di diverso. Non le ha mai portate in casa. Questa è diversa. Non so se durerà, ma io lo spero. Come potrei vivere senza di lei, senza guardarla tra le braccia di mio figlio? E' l'unico modo che ho per possederla, per godere di lei. Molto spesso, prima dell'amore, giocano a stuzzicarsi. Lei si nega e lui la rincorre, per quanto possa concedere una stanza. Mi piace vederla ridere, osservarla come soccombe alla presa salda di un uomo. Come le sue braccia si chiudono su di lui, che pensa di averne il dominio. Guardandoli, mi chiedo come possa essere stato anch'io superbo da credere di condurre il gioco, mentre una donna mi menava per il naso. Come lei, né più né meno. Ma nessuno obbliga un uomo a pendere dalle labbra di una donna. E dunque. E dunque continuo a guardarli, mentre si amano, mentre lei lo veglia se lui si addormenta, mentre lo sveglia con tocchi lievi del piede, di una mano, o soltanto muovendo le lenzuola. Mentre finge di dormire, appena si accorge che è sveglio e la cerca. Mentre si allontana scoprendo il corpo nello scivolare di una coperta, di un lenzuolo. Stupido, vorrei dirgli, ti prende in giro, non te ne accorgi? Ma sarebbe invidia e me ne vergognerei troppo. Per questo li spierò anche stasera. Mi siederò dinanzi allo specchio. Entreranno nella stanza ignari della mia presenza. Chiuderanno la porta alle loro spalle, sentendosi in una tana. Si lasceranno andare nei primi sorrisi, nelle carezze ancora incerte, nella ricerca dei punti sensibili del piacere. I loro corpi nudi danzeranno nel colore morbido dell'abatjour. E fuori la pioggia scenderà col fruscio sommesso di un sottofondo. Si allacceranno sciogliendo ogni dubbio, aggrovigliando brividi caldi e profondi.
E io sarò lì, di fronte ai miei ricordi. Materializzati in un uomo che domani riderà allegro, gonfiando il petto alla finestra, altro non vedendo che la luce di un nuovo giorno.


Giulia Lenci

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