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Racconto n° 2645
Autore: Madamesnob Altri racconti di Madamesnob
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Deliquio glauco
Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.

Io venni in loco d'ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.

La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.

(vv. 25-33, Canto V, Inferno)




Non so chi sia. Non conosco il suo nome. Forse l'ho dimenticato.
Intuisco solo il profilo della sua bocca, lo distinguo nella penombra in cui mi lascia arrotolata; sento il suo alito freddo, sottile, disumano. Arriva sempre silenziosamente, non riesco a prepararmi, quando giunge è sempre troppo tardi. Sobbalzo, le spalle sconvolte da un tremito improvviso che non provo nemmeno a nascondere, e tengo gli occhi bassi, al suo petto, pregando non mi avveleni. So che sono in sua balia, so che non ho alcun potere su di lei e che ribellarmi mi porterebbe dritta alla morte. Così rimango ferma, tendendo i muscoli al pericolo in un vano ma istintivo tentativo di sopravvivere.
La sua risata piove come ghiaccio aguzzo sulla mia nuca. Non mi muovo. Aspetto di conoscere il mio destino. Ha una voce sgraziata, aliena, elettrica. Non riesco a capirla, la sento parlare e sono terrorizzata al pensiero che non potrò risponderle correttamente. Rimango sempre in ginocchio chiedendomi se quel tributo alla sua autorità potrà salvarmi ancora una volta. Il suo procedere incomprensibile pare allentarsi, diventare più fluido. La voce, seppur ancora graffiante, sembra abbassarsi di un tono. Forse... forse ce l'ho fatta di nuovo. Sento i pori aprirsi, respirare un sollievo impercettibile, la pelle perde il grigio della paura, e riluce d'attesa.
So di essere sua prigioniera, anche se non ricordo come e dove mi ha catturato. Credo non siano state le sue unghie ad afferrarmi, deve aver mandato una delle sue ombre, viscide creature striscianti che sanno stringere così bene le ossa per intrappolarle nel freddo. Non mangio. Non bevo. Nessun bisogno vitale, perché qui non c'è vita. Se la sono portata via. Mi rimangono solo quest'attesa senza tempo, un corpo intorpidito e una mente, la mia, dilatata oltremisura.
E' strano. Non sento dolore alle ginocchia, eppure peso su di loro da molto - da quanto? -
Sento gli aghi delle sue ciglia sfiorarmi il capo, lambirmi la fronte, sfondarmi le clavicole. Esito un attimo, poi scopro che il suo freddo non incrina la mia volontà, percepisco intatta la ragione, sento di poterla usare ancora, anzi, posso adoperarla con cura, senza fretta.
Non tremo più, percepisco lieve il mio ascendente su quella creatura: mi sta guardando curiosa, studiando senza ferirmi.
Allora alzo gli occhi adagio e, senza movimenti bruschi, sollevo le palpebre fino a guardarle il volto per la prima volta. Conosco il suo seno verdeblu a memoria, fino ad oggi il mio sguardo si è spento su quella porzione di pelle marina, ma ora oso, alzo il mento e poso gli occhi sui suoi.
Cado in quella fessura felina, l'iride glauca m'inghiotte subdola mentre la visuale si allarga e, mentre vengo meno, catturo quel viso sconosciuto. Possiede lineamenti insolitamente rotondi: un cerchio quasi perfetto a racchiudere labbra disegnate naturalmente, carnose, chiuse a geisha, zigomi quasi invisibili se non per una sfumatura albicocca, unica nota calda dell'incarnato. Su tutto gli occhi. Grandi, spalancati da gatta a caccia, con quell'insolita pupilla a fenderne la luce verde.
Non ha squame, anzi. La pelle è compatta e spessa, non lucida di serpente ma serica di frutto compatto, esotico.
Quando riapro gli occhi ho il suo braccio nudo sotto la nuca, il gelo del contatto mi rimbalza dritto al cervello, mi costringe ad alzarmi rabbrividendo. Lei rimane impassibile, la stessa espressione ambigua, tra pericolosa arroganza e divertimento amichevole. Non riesco a delinearla, la mia mente corre impazzita ma non trova confini conosciuti in cui racchiuderla, parole con cui definirla e circuirla.
Rimango muta di fronte a lei, aspetto inerme un suo gesto, fosse anche letale.
Socchiude gli occhi, si avvicina, viola il mio spazio sicuro infilandomi una mano sulla nuca e, proprio quando aspetto di sentire i suoi artigli violacei spezzarmi il collo, sento la sua forza spingermi contro il suo seno. La mia bocca si apre sotto la violenza del gesto, un rivolo lucido illumina il suo capezzolo nero e, come sotto un sortilegio, la sua pelle inizia a scottare. Il vapore gelido che emanava fino a pochi attimi fa si trasforma in calore umido, la sua carne arde, s'illumina dall'interno e, per la prima volta, il suo profumo mi penetra in gola. Stordita socchiudo le labbra bevendo quell'odore dolciastro, la lingua sfugge e prende a leccare quelle mele invitanti. Lucide, venefiche, tese al contatto. L'abbraccio senza remore, cingo la sua schiena sottile tra i gomiti e non smetto di leccarla, succhiarla, volerla.
Ora sorride, mio velenoso essere incantato, rovescia il capo e piega le ginocchia sotto le mie carezze insistenti, sempre più premute, calde. Scivolo con le dita sul quel corpo sibilante, sento cadere ogni indugio, avverto ancora il pericolo, ma non lo rifuggo più, ora mi attrae, ne divento avida. Mi nutro di quella creatura lieve, ne penetro le fessure umide, la guardo contorcersi di piacere viscido. E me ne innamoro follemente, senza rimedio, senza riparo alcuno.




Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.

(vv. 103-105, Canto V, Inferno)



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