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Racconto n° 3442
Autore: Faber Altri racconti di Faber
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Della giustizia e dell'ingiustizia
E torna, per la seconda volta la febbre, in pochi mesi, a violarmi. Corpo e sogni.
E con la febbre scivolo di nuovo, per mano al sudore gelido del corpo troppo caldo nella notte, in quella casa.

La vita era proseguita, senza scossoni apparenti. I pochi tumulti popolari dovuti alla nuova tassa su grano e macinato introdotta per finanziare, su nostra decisione in Senato, le spedizioni dell'imperatore Gallieno contro i barbari che spingevano da nord e da est sui confini dell'Impero erano stati repressi nel sangue. Per dieci giorni e dieci notti non era stato salubre e sicuro uscire dalle vie del centro e avventurarsi soli nelle zone di mercato e di opificio.
Poi, come era salita, l'onda della protesta disperata, era scemata, aveva ragione Aristone dire che il popolo non ha memoria, quando ha solo fame.
In quei dieci giorni, forse succube di una ritorno di febbri di palude, che mi porto dietro da un viaggio in Apulia fatto quando ero proconsole da giovane, e forse influenzato dalla decisione cinica che anch'io avevo votato, in nome di un bene superiore, presi una seconda decisione. Che misi in atto in forma che dimenticherò presto, spero di riuscirci, pur non essendo uomo del popolo, né quanto meno affamato.

Una decisione vile.
Il ricordo di lei dopo l'incontro con il giovane Roganziano mi tormentava.
Non mi dava pace.
Non avrei mai potuto accusarla di quel suo svergognato piacere, di cui io solo ero stato artefice e ruffiano. Né tanto meno di quell'odore di sperma e sudore che avevo trovato sul suo corpo, nel suo letto, sul suo sesso così appagato. Nemmeno la punizione inflitta ad Aminah davanti a lei, la prima così violenta da me mai inflitta ad una schiava, aveva dato pace al ribollire dentro di me di una forma per me finora sconosciuta di furore. Così decisi.
Con la complicità che da sempre io stesso volevo con lei, lasciai sulle mense e nella nostra stanza del vino. Nuovo, rosso di sangue vivo, e odoroso di botte resinosa.
Sapendo che lei non avrebbe resistito, al chiuso delle mura, sentendosi protetta dal mio amore. A farne uso e abuso.

E lei non tardò a commettere l'errore.
Tornai a casa dal Senato, stanco e anche avvilito, dalle notizie che i messaggeri riportavano dal confine. Scontri saltuari con i Goti, si erano risolti in modo non sempre favorevole alle nostre corti. A fronte dei nostri attacchi tribù di Sciti, Peucini, Greuthungi, Ostrogoti, Tervingi, Visi e Gepidi, nonché Celti ed Eruli, con brama di vendetta irruppero in territorio romano saccheggiando molti distretti.
Parecchi nostri soldati, reclutati da tempo troppo recente tra le genti galliche avevano anche disertato e, forti delle loro conoscenze delle cose romane, e ella nostra arte militare, avevano aiutato i nostri nemici a superare il limes in più punti.
Ero avvilito, dell'inutilità apparente della legge crudele e impopolare fatta votare e votata e rincasai alle prime ombre della sera.
Trovai Aminah, entrando nelle stanze della notte. Mi venne incontro e lo fece con aria così maliziosa che capii che il mio stratagemma aveva funzionato e che lei stava adoperandosi per proteggere la sua padrona. Seducendomi.
Aminah mi porse un telo umido di vapore perché detergessi il viso rilassandolo, e nel farlo mostrò la curva impudica del seno nella veste aperta sul avanti. Il seno e capezzoli così scuri, sempre contratti, come se avesse brividi incancellabili, di natura.
Fui tentato di prenderla.
La piccola schiava era ben padrona delle sue arti di seduzione, ma avevo il mio piano da realizzare.
Scostai la giovane donna e trovai nel letto lei, nuda. L'orcio del vino di Illiria quasi vuoto ai piedi del letto.
Ordinai ad Aminah di andare, rivestendosi velocemente, a chiamare Castrizio Firmo. O Sabinillo o se li trovava a casa entrambi. Lei obbedì, credo di malavoglia, intuendo cosa volessi fare.
Quando giunsero a casa feci loro vedere lo scempio di quel corpo così amato, nudo, il respiro pesante e odoroso di vino, osceno, della donna per cui loro sapevano io ero letteralmente impazzito. Mi furono bravi testimoni.
Avrei avuto diritto di vita su di lei, volendolo, perché le leggi da sempre vietano l'uso del vino alle donne accasate o vergini di famiglia, concedendolo solo alle meretrici o alla donne pubbliche nel postribolo e nelle orge. Tolsi così la mano dal suo capo, quella che allo sponsale si pone in segno di protezione, sostituendosi al padre e la cacciai.
Non dopo aver pagato lauto compenso al padre di lei, di nascosto da tutti, per essere certo che l'avrebbe accolta nuovamente in casa non facendole mancare nulla. La scelta era darle morte o renderla a chi me l'aveva ceduta in sposa, coi diritti di padre su di lei. Mi assicurai con una quantità inusitata di sesterzi in oro che lui la riprendesse allora.

Partì per Capua due giorni dopo, portandosi con sé Aminah, che le avevo donato io stesso a suo tempo come schiava.
In quei due giorni le chiesi di non uscire mai dalle sue stanze, e tenni io Aminah con me nelle mie. E feci solo con lei l'amore. Mi affezionai ad Aminah, più in quei due giorni che in precedenza quando era solo la schiava della donna che amavo.
Provai emozioni nuove davanti al corpo quasi acerbo, alla sua capacità di esprimere libidine animale e perdizione selvaggia con lo sguardo ancora di bambina.
La presi in ogni modo la rabbia e la successiva passione mi suggerirono di fare. La frustai più volte, senza ragionevole motivo, solo per sfogare qualcosa di indefinito che mi ribolliva dentro, e infissi aghi nel suo seno, usai i fermagli delle sua veste a tale scopo, solo per vedere lacrime di sangue imperlarsi sulla sua pelle, oltre a quelle di sale agli occhi, che leccai goloso.
Lei non ebbe un solo attimo in cui cercò riparo.
O cercò di sottrarsi a nulla in modo reale.
Quasi sfidandomi. Si lamentò, sì lo fece. Pianse e implorò.
Ma quando poi salivo su di lei a prenderla, sazio del crescente suo dolore incassato, aveva quello sguardo privo di sconfitta, quasi di sfida, di chi aveva vinto per davvero. Ed è in quello sguardo che trovò strada il mio sentire.
Che ogni volta che le diedi dolore, e fu un crescendo, nell'amore che dopo mi serviva a ridare pace al cuore, io ero un passo oltre, suo. Ancora. La vidi bella come mai l'avevo forse vista prima.
Coi segni delle mani, della frusta, delle candele portate dal tempio, quelle di cera orientale, profumate di spezie, le più preziose. Sul corpo.

E fu quando il padre venne a prendere la donna che avevo ripudiato, e incassare la ricompensa per la generosità comprata, e con lei anche Aminah che mi resi conto di aver fatto qualcosa che mi avrebbe poi nel tempo tormentato. Lei non si voltò salita sul carro, sopra le casse dei suoi abiti e monili che tutti, senza eccezione acuna le avevo permesso i portarsi via.
Aminah sì. Seduta a cassetta, col padre della sua padrona a fianco, si voltò una volta sola.
Io riconobbi all'istante quel sorriso di sfida e di paradossale e incongruente protezione che solo nell'amore aveva.
Visto tutte le volte, nei due giorni precedenti, in cui lei accoglieva serrandomi le cosce alle reni, il mio morire e spegnermi in lei, esausto, soddisfatto ed appagato. Squassato dall'ultima violenta spinta delle reni mie, stretto nella sua fica nuda.

Comprai il giorno dopo, dopo faticosa ricerca, perché gli insuccessi militari alla frontiera non rifornivano la capitale di nuovi schiavi come un tempo succedeva, una schiava nuova, che si prendesse cura della mia stanza e del mio piacere e alleviasse le mie ire e i miei pensieri.
La scelsi tra le giovani di un villaggio razziato respingendo gli alemanni a nord oltre il limes che avevano varcato pochi giorni prima. Odorava di animale selvatico, quasi di fiera, nel sudore del viaggio in catene. La pelle era chiarissima.
L'odore era acre come quello del sesso delle vergini vestali nel trionfo della loro primavera.
La pelle chiarissima, cosparsa di piccole macchie scure, come spesso è quella delle donne delle tribù del nord del nostro impero.
Come quella di Aminah.
Le diedi un nome, perché il suo era impronunciabile, nella lingua cacofonica e sgraziata del suo paese, e poi a me nemmeno piaceva. Mandai un messaggio il primo al padre della donna che avevo cacciato da casa mia, con un servo a cavallo. Ci mise due giorni ad andare e due a tornare.
Lo punii della lentezza e della mia troppo lunga attesa, senza ascoltarne la ragione.
Portò le notizie che avevo chiesto. Lei stava bene, il padre ne aveva cura.
Sul vendermi Aminah al momento non ne voleva però parlare.
Chiamai Rebecca, il nome l'avevo scelto dalla libro sacro dei cristiani, in spregio a loro. Chiamai Rebecca, la nuova schiava e per la prima volta, letto, accartocciato con stizza, e bruciato il messaggio di risposta nel braciere, la frustai.
Per cercare nei suoi occhi nuova sfida.


Faber

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