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Racconto n° 3905
Autore: Aedocieco Altri racconti di Aedocieco
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Ἀφροδίτη
Non sono una vestale e neanche un'odalisca. Sono Ἀφροδίτη. Voi capite cosa intendo. Se non conoscete il greco vi dirò che mi chiamano Ishtar in Mesopotamia, Hathor in Egitto, Astarte in Siria, Turan in Etruria, Venere a Roma. Sono nata dal sacrificio della virilità di Urano per mano di Crono e dal carnale congiungimento di Zeus con Dione. Sono Urania e Pandemos, schiuma e carne. La mia visione è celestiale e infernale. I miei sacerdoti sacrificano a me i più bei manzi della terra dalle cosce più robuste, dai pettorali più ampi, dagli organi sessuali più virili. Sono Afrodite.
Mi vesto di abiti normali, non sembro eccezionale perché Cronos (il tempo) me lo vieta. Vi sono accanto in ufficio. Lavoro al terminale, rispondo al telefono, sono gentile o scostante. Ho una personalità che qualcuno giudica glaciale, altri cortese. Non sanno la potenza che nascondo sotto i miei jeans, le mie gonne, i miei maglioni asessuati.
In passato ho impersonato Demetra, la fertile dea della terra. Ho partorito, ho allattato, ma finito il ciclo vitale ho deciso. Gettate alle ortiche le subdole divise ho rivestito la clamide ed ho ripreso a cavalcare senza sella a pelo nudo sulla groppa di irretiti puledri. Io li trasformo in stalloni e mi dimeno nella corsa, li sprono per farli saltare più in alto per toccare con essi il cielo e poi tornare sulla terra.
La mia Arte è divina. Sono raffinata. Preferisco chi abbia esperienza, navigato, che mi faccia sentire la sua bambina, la sua donna, la sua cortigiana.
Con pazienza mi corteggia, ma a lungo deve penare prima che risolva la situazione con un tenero bacio. Non lo faccio per cattiveria o per maliziosa furbizia. Io devo amare prima di lasciarmi andare.
E allora comincia Amore a saettare e colpisce, ferisce nel cuore. Io sanguino e lui s'intriga, s'avviluppa, non può più uscire dalla sottile e tenace rete che tendo. Finché non lo tiro nella mia alcova.
Un uomo, un maschio io lo trovo stupendo. Da giovane è forte, vigoroso, ha cosce che guizzano sulle tue, il petto indurito con i capezzoli ritti, l'addome piatto e vibrante, il sesso ritto. Ma non ha quella confidenza, quella pazienza, quella capacità di donare di chi ha un'età più matura, perché ti sa prendere per mano e ti accompagna per i prati, ti accarezza come un vento che vuol sciogliere i tuoi capelli, ti fa sognare mentre accompagna con delicato movimento la tua mano. Tu senti la sua sulla tua, insieme al calore del suo sesso. Accostata al suo corpo ti stringi al petto per chiedere protezione, sicura di averne perché te la offre spontaneamente. La sua e la tua mano sull'organo ch'emana mille suoni mentre devoti peana giungono all'orecchio del tenero Amore. Commossa da tanto pio fervore ti sciogli e coinvolta allarghi l'uscio per accoglierlo in grembo.
Corrono i servi fedeli a soddisfare i tuoi desideri. Non occorre che comandi. Il suo arto, la sua mano s'avvicina e le dita leggere si dispongono pronte a scorrere nell'incavo stretto a cercare l'ingresso a scostare le labbra ingrossate, tumide, calde, inumidite dal piacere. Penetrano oranti nel sacro atrio. Vanno a cercare il pronubo Clito dal difforme piacere. Propiziano il suo godimento residuo di maschile piacere nel tuo corpo di femmina.
Il pollice e il medio sostengono il pinnacolo monco, mentre l'indice passa sul piccolo glande e lo solletica fino a renderlo intenso, tumido, irriverente. Poi l'esperto argonauta accosta la bocca. E succhia e lecca e bacia nell'orifizio vestibolare. Nel profondo la lingua come raspa titilla e affonda. A volte più ardente si fa l'incontro spalmando unguento al profumo di rosa, di vaniglia, di cioccolato sulla parte dolente. Ciò che è dolce è nel fondo.
L'amante maturo non è mai affrettato ma, paziente, sa cogliere il frutto che pende dall'albero con le sue dovizie. Attende che cada per coglierlo al volo e succhiarlo, evitando con i denti di scorticarlo. Poi affonda nel corpo, nei sensi, nella mente. Pare che non prenda, ma doni soltanto. E invece sconquassa e devasta l'anima e i sensi. - Cavalchiamo insieme per prati e valli. - L'affanno si fa stringente. L'orgasmo sale. Sobbalzano i sessi di entrambi. Ma a un tratto lui esce. Interrompe l'amplesso. Con fare deciso mi prende per i fianchi e con dolce torsione mi gira, supina. Io tremo, comprendo qual è lo scopo.
La femmina che di me si riveste, china, non si sottrae al suo destino, estraniata soggiace. Ma lui tarda, le spalma a fondo l'ingresso recalcitrante che corrusca le crespe. Poi agita piano la sua rigida mazza per condurla all'assetto. La rende più inflessibile all'incontro maturo. L'irretisce fino a portarla alla tensione ideale. Lei preme la faccia nella coperta che disfatta è lì accanto. Vorrebbe fuggire dal banchetto, lasciare l'altare del sacrificio. Con sicura dolcezza lui l'accarezza sui lombi, poi allarga pian piano il lubrificato pertugio. Le alza il bacino ben alto, prendendo la mira. Le sussurra all'orecchio frasi d'amore: - Mia piccola, mia bimba, mio fiore, mio unico amore. Piano piano allargati bene. Non pensare che il piacere non sia anche soffrire. Vedrai che passato l'istante starai bene. Ti sentirai piena nel tuo godimento. Mia piccola alba... - – e intanto si innesta. Lei sente dapprima soltanto che il foro d'uscita, per altro scopo adoperato prima, si riempie insolitamente della testa del serpe. Ha paura, trema. Stringe gli occhi. Le mani si serrano. La bocca si distorce. Vorrebbe gridare come un'ossessa. S'ingrossa quel corpo, penetra nelle intime viscere. Ormai superato ha l'introito e avanza nel caldo ventre. Lei ansima, sbuffa, la testa le scoppia. Vorrebbe scacciarlo, si dimena. Lui con calma il bacino scorre lento nel movimento ondulatorio, mentre col petto la copre sul dorso e intanto le serra i polsi. Le fa sentire il calore d'amore. Fa in modo che non possa sottrarsi al diletto. Ed ecco che l'infido cono del pene s'infila, le allarga lo sfintere in un ultimo sforzo. Il dolore è tremendo nella povera Dea, della povera femmina - della mia carne sofferente -. Credeva di essere potente, di poter controllare chi tanto diceva di amarla di venerarla, di non poterle far male neanche con un fiore. Ed ora, buttata sul suo trono con la faccia in basso, girata subisce l'attacco più vile. L'arsura è tale nel genitale che vorrebbe finire e grida. - - Basta, basta (sottacendo... animale!) - . Ma nell'ultimo guizzo sente sprofondare nel pozzo tutto l'arsenale che nascondeva la testa di ponte.
Sono io o un'altra persona, differente da me, che non conosco e si agita in me e si comporta in modo impensabile fino a poco tempo fa?
D'incanto il dolore, l'arsura vengono meno, si trasformano. Inizio ad agitare piano l'opercolo ormai inesorabilmente dilatato e permanentemente occupato. Collaboro e non mi oppongo più, Sento che il ventre succhia, finalmente, il piacere dall'ospite fino ad allora considerato incomodo, ormai inglobato nella mia essenza carnale. Il pube di Amore mi scuote le reni procurando lo sfrigolio della carne che sbatte e sbatte e sbatte una sull'altra. Piegata sulle braccia per lo sforzo di sopportare il peso dell'amante e piagata nel profondo del prosternato posteriore non conto più l'ora che lenta trascorre e quel senso di immenso mi procura. Mentre l'orgasmo sale sulla china del tempo, il cupo sacerdote arriva all'estremo sacrificio. Soffiamo entrambi come mantici. Entrambi sudiamo. Entrambi tendiamo a raggiungere l'altro che innanzi corre. Poi lo schianto. Saetta nel chiuso fondale dilagando il liquido sperma bavoso. Il flusso violento, il calore improvviso mi fa sobbalzare per lo spavento. Compreso il mistero, mi agito più violenta sotto quelli che capisco essere gli ultimi lampi della battaglia. Ormai posso cantare vittoria, ma amaro è finire. Il fortino assediato non doveva essere liberato dallo straniero! Il nemico, caduto nella trappola, non poteva ritrarsi proprio ora dopo l' invasione. Ma è umano che ad ogni acme segua un degradare. L'elsa ormai vuota di vigore ritrae la spada, diventata uno stiletto. Un vuoto baccello. Man mano si sgonfia, riduce il suo aspetto. Si sfila dall'ano. Ricade.
Ribalta sul letto il guerriero assediante ma gioiosamente sconfitto. Riprende fiato bocconi aspirando l'aria nei polmoni bruciati. Annullato nel lubrico piacere. Lei giace supina. Le gambe allargate. La crespa lenta ristretta dopo il dilatato godere lascia scorrere piano una lacrima, un rivolo del seme introdotto a forza, che si mischia al lubrificato involucro esterno.
Assente, ricordo ogni passo di quel calvario che mi ha presa e redenta, mentre si disfa la mente.
Il mio amore mi bacia teneramente sfiorandomi le labbra prima di sollevarsi. E rivivo, come in un flashback, ogni scena e non mi rendo conto del dolore che proverò quando l'insoddisfazione di non poterlo più avere mi sfonderà il cervello, drogato dall'abitudine di provare le licenze d'amore.
Quante volte, dopo quella, ho continuato la corsa col cavaliere in groppa, ormai abituata a sentirlo premere le ginocchia contro i fianchi, stimolarmi sino quasi a farmi perdere i sensi. L'ho provato anche girata. Lui sotto, io sopra. Guidavo io, allora, con ferma volontà e mi facevo penetrare fino a che piangevano gli occhi. No, non di dolore, ma di non potere elevare ancora più il godimento.
Anche la pioggia dorata ho provato, il pissing. Lui con calma mi ha abituata a prendere gusto ad ampliare le mie conoscenze. Sotto quante docce ci siamo bagnati, sentendo l'acidulo sapore del liquido giallo sulle papille gustative. Era bello giocarlo nella bocca e attendere poi l'esplosione del liquido dorato misto al viscido secreto prostatico. Quanti umori, quanti afrori, fino a starne male. Il piacere era il primo Signore.
Davanti, dietro, rivoltati uno sull'altro la bocca ai sessi, le dita che stringono, che penetrano l'uno nelle disponibilità dell'altro. Senza remore, senza rancori, con reciproca dedizione.
E poi... Tutto è finito in una pozza d'acqua posta sulla via. Annegato lui, annegata io.

Aedocieco

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