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Racconto n° 4509
Autore: Zenzero Altri racconti di Zenzero
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Al cinema Castello
Era il mio rifugio serale. Film di quart'ordine ma ogni sera titoli diversi. E scomode poltrone in legno ma una piacevole frescura da correnti misteriose.
Lei l'avevo notata al botteghino, il volto corrucciato che le piegava il labbro inferiore. Faceva parte di un quartetto misto, ma aveva l'aria di chi avrebbe preferito essere sola o forse altrove. Io ero solo, come sempre.
Me la trovai per caso seduta a pochi posti da me.
No, non è vero. Prima di scegliere il mio posto avevo aspettato che si sistemasse con il suo gruppo. Mi era piaciuta la sua decisione di sedersi ad un estremo dei quattro e non al centro come fanno le donne che vogliono ribadire la loro importanza, e confermare la loro insicurezza.
Mi sedetti nella stessa fila, qualche poltrona più in là. Avevo modo di guardarla senza dare l'impressione d'infastidirla. Già, uno come Mimmo le si sarebbe seduto a fianco e l'avrebbe martellata allo sfinimento con occhiate e sfioramenti, infischiandosene della sua reazione; che invidia! Io no, non vado allo sbaraglio, temo il rifiuto, prendo le cose alla lontana e non c'è mai tempo abbastanza e finisco con il restare nell'ombra ad osservare l'occasione che sfuma.
Così anche quella sera scelsi la distanza e il desiderio.
La luce dello schermo le faceva brillare gli occhi. Sembrava un maschiaccio, capelli corti, espressione dura, corpo insaccato nella poltrona, piedi allungati sul bracciolo della fila davanti, incurante della gonna che risaliva oltre il ginocchio. Sembrava un maschiaccio, terribilmente femminile. Aveva scambiato poche parole secche con l'uomo seduto accanto a lei ed ora teneva la spalla sinistra sollevata a difesa del proprio isolamento. In questo modo era orientata verso di me.
Incrociammo lo sguardo, un sorriso a cui non rispose.
Mi concentrai sul film ma dopo poco mi voltai di nuovo a sinistra, mi stava guardando o almeno guardava nella mia direzione. Il volto era più disteso, non dico sorridesse ma quasi.
Le mostrai il pacchetto di patatine e lei scrollò il capo in diniego. Il rifiuto stranamente creò un contatto tra noi, ci guardavamo ora senza più ritirare gli occhi all'incrocio degli sguardi. Sguardo pesante il suo, carico di qualcosa che non riuscivo a decifrare ma che mi piaceva come una poesia o un quadro surreale e fascinoso.
Non sapevo che fare per dare un seguito a quell'intesa muta e sicura, in fondo mi bastava. Ogni volta che mi giravo la trovavo lì ad aspettarmi. Mi fissava, senza sorriso, senza imbarazzo.
Cercai ancora il suo sguardo e questa volta lei mi fece un cenno minimo con gli occhi e s'alzò. Aspettai un minuto e la seguii facendo il giro largo per non incocciare nei suoi amici.
I bagni erano squallidi ma lei non sembrava badarci. Mi aspettava sotto una lampadina fioca, era tranquilla. Come entrai mi portò un dito alla bocca per farmi tacere e con quello stesso dito indugiò sulle mie labbra fino a schiuderle. Le accarezzai una guancia e mentre mi avvicinavo per baciarla mi prese la mano e me l'appoggiò tra le cosce come volesse farmi ascoltare il battito del cuore. E lo sentii palpitare sotto la gonna il suo vero cuore. Scivolammo dentro un cesso alla turca, lurido, ma noi ci guardavamo negli occhi, non vedevamo altro. Ricordo che si appoggiò alla porta e sciolse la camicia annodata in vita, ricordo le mie mani ai seni, i palmi aperti a farmi trafiggere dalle punte e la bocca a scendere come una lumaca su quella pelle offerta. Sollevò come un sipario la gonna di garza ed io mi inginocchiai a baciarla tra le cosce. Forse fui ridicolo, mi piaceva troppo quell'ultimo ostacolo impalpabile. Sì, la leccavo attraverso il tessuto delle mutandine, ero un bambino che succhia il gelato senza scartarlo, eravamo due amanti nudi separati da un lenzuolo. Credo che mi capì e che decise di lasciarmi giocare come volevo, accarezzandomi lenta la testa. Aspettò paziente che finissi di giocare e compissi finalmente il gesto atteso. Così le abbassai le mutandine, con i pollici aprii le labbra umide come fosse un'albicocca e trasformai la lingua in un docile serpente. Aveva il gusto asprigno del vino novello, ne bevvi da ubriacarla di lingua e baci.
Alla fine sollevai lo sguardo verso l'alto a ricevere il premio di un sorriso e rimasi di sasso. Stava piangendo. In silenzio si passava il dorso della mano a cancellare lacrime che subito si riformavano. Ero confuso: - Che c'è? - le chiesi spaventato.
Sono passati vent'anni e ancora mi rintrona l'unica parola che le sentii pronunciare quella sera:
- Sposami - .

Zenzero

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