E' sempre sabato, quando termino la mia settimana. Per gli altri, i giovani, la settimana finisce il giorno prima. Hanno fretta, loro. Per me, ormai, la fretta non esiste più. E' il sabato, il tempo dei miracoli.
Uscendo dalla clinica a quell'ora tarda, ben pochi mi salutano, ma il sorriso della suora e l'inchino del portiere sono il viatico per il viaggio nel mio sogno. Mentre guido verso casa, il vecchio cuore si riempie del mare d'emozioni che lo invade e trabocca in torrenti lungo tutto il mio essere.
Imbocco la strada che si arrampica in collina, le mani tremano e il respiro è affannato. L'agitazione è così forte che il telecomando mi sfugge e ruzzola sul tappetino. Con un sospiro, e sorridendo di me stesso, lo raccolgo e finalmente apro il cancello.
Percorro il viale guardando nello specchietto retrovisore le due pesanti ali di ferro battuto richiudersi lente e silenziose, e un senso d'euforia increspa la mia pelle in fremiti che credevo dimenticati. Scendo dall'auto e, girando lo sguardo sul parco buio, punteggiato dai piccoli lampioni, mi sento libero. Respiro a fondo e mi avvio oltre la porta aperta, rispondendo al saluto di Angiolina, che intanto si accolla il mio cappotto o il soprabito o la giacca o quel che è.
- Buona sera, professore, la cena è pronta. Comandi. -
Voglio bene ad Angiolina, perché è buona e discreta. E' con me da tanti anni e, nonostante sia più lenta di una volta, non la cambierei per nulla al mondo. Le ho già detto che, quando proprio non ce la farà più, prenderò un'altra domestica, ma lei starà lì con me. Le sue stanze sono lì. Soltanto di lei mi fido. Lei, che non chiede mai niente, che non sente e non vede mai niente, lei sa tutto. Nessuno gliel'ha detto e lei non ha mai visto. Eppure so che lei sa. Non per niente la cena del sabato sera è sempre sfiziosa, ma leggera. Non per niente gli abiti sono pronti sul letto e gli stivali mi aspettano come due soldati sull'attenti. Non per niente il bastone da passeggio è appoggiato al muro, accanto alla porta della mia camera. La busta no, non la prepara. E' una delicatezza nei miei confronti. Però le buste rosa non mancano mai.
Di solito mi serve un consommé con un accenno di julienne di verdure. Poi un petto d'anatra o filetti di sogliola. Segue una macedonia di frutta fresca. Al termine, il caffè.
Mi alzo da tavola dicendole: - Ritirati pure, Angiolina. -
Lei ringrazia con un sorriso dolce. Metterà tutto in ordine e si chiuderà in camera sua, a dormire.
Io salgo al primo piano e, seduto nella poltrona della mia stanza, fumo una sigaretta, guardando la notte oltre la finestra. La grande magnolia è arrivata ad infilare i suoi rami sul balconcino e i fiori che sbocciano sembrano lunghe dita carnose. Qualcosa in me si accende e divento impaziente. Spengo la sigaretta e controllo l'orologio a catenella. Fino alle ventidue è inutile muoversi. Ai miei tempi a quell'ora era quasi tempo di rientrare. Oggi si agghindano per uscire. Passeggio avanti e indietro. Sono convinto che le lancette rallentino di proposito, per aumentare la mia smania. Lo ricevo come un regalo, quel dilungarsi dei minuti, e gli ultimi secondi terminano in uno spasmo che rasenta il dolore fisico. Ma finalmente è ora.
Indosso i pantaloni di velluto, la camicia a scacchi e la giacca di fustagno. Metto in testa il cappello con la piuma di fagiano e infilo gli stivali. Dal cassetto della scrivania prendo una busta rosa e la riempio con l'obolo per il sogno. La metto in tasca e afferro il bastone. Posso andare.
Nel retro della villa il parco raduna siepi di bosso gonfie e profumate come un morbido abbraccio. Ma io proseguo oltre il cancelletto nascosto dai rampicanti e lo chiudo furtivo alle mie spalle. A volte penso che dovrei prendere con me una pila, per vedere dove metto i piedi. Ma il tragitto lo conosco a memoria e non voglio insospettire nessuno. I rischi che corro sono parte del mio sogno e il fruscio o la voce di qualche animale selvatico aumentano la mia eccitazione. Cerco di camminare nel sentiero che costeggia il bosco, dove finiscono i prati, ma se mi giungono rumori o risate dalle case poco lontane, non esito ad addentrarmi tra gli alberi.
Poi, in cima alla collina, guardo giù e tutto si ferma. Il mondo è tutto là. Scendo adagio e il rimbombo del cuore si spande nella conca immensa dell'oscurità. E' una casa modesta, circondata da uno steccato che delimita un orticello popolato da animaletti di gesso. Le finestre sono buie. Soltanto da una trapela il pallido alone di una piccola luce. Mi seggo sulla pietra contro l'imponente frassino. E aspetto.
Quella sera m'ero seduto un attimo a riprendere fiato. Le tende della finestra furono scostate di colpo e una figuretta scrutò dai vetri nella mia direzione. Pensando che mi avesse visto e fosse in allarme, mi alzai, togliendomi il cappello con un cenno del capo. Dal moto di stupore che ebbe, capii che solamente in quell'istante ero stato individuato. Ancora salutai, con un gesto più ampio, per rassicurarla sulle mie intenzioni. E allora successe.
E ancora accade. Scosta lenta le tende come un sipario che si apre solo per me e, alla tenue luce dell'abatjour, lascia cadere ogni cosa che indossa, piano piano. Quindi si gira e ancheggiando si allontana, sollevando la massa ramata dei capelli lunghi. Poi torna da me. Ha in mano una sciarpa. La passa sul corpo, nascondendolo a tratti, rivelandolo e di nuovo negandolo ai miei occhi. La lascia cadere. Mi sporgo in avanti. Si mette di profilo. Le curve piene e delicate si dilatano al ritmo di sospiri che non sento, ma posso immaginare.
Una mano scivola sul ventre, più giù dove scompare e rimane, nel movimento carezzevole che tende la schiena all'indietro e rovescia la testa ad occhi chiusi, la gola un tenero arco, la bocca socchiusa. La seta dei capelli è una cascata in cui vorrei affondare il viso, così, ora che sta tremando ed è scossa da un impeto che mi sembra di provare, nei brividi che scuotono il mio corpo. Infine abbraccia un cuscino, vi appoggia la guancia, chiude gli occhi e con mosse lente dondola avanti e indietro.
Lei abbraccia me. La prima volta s'è accarezzata con un orsacchiotto di peluche, timidamente, diffidente. Avevo in tasca quella busta, perché volevo scrivere a mia nipote. Ho tolto il foglio e vi ho messo ciò che avevo con me, non molto, per la verità. Ho sollevato la busta, per essere certo che la vedesse bene e, allungando il braccio tra le assicelle di legno, l'ho deposta sotto un lumacone di gesso.
Da allora, lei s'è sciolta. Si muove con sicurezza, forse si diverte persino, ad accontentare la sagoma scura del sabato sera. La busta rosa è sempre più consistente, perché quei minuti che lei mi dedica non hanno prezzo.
Adesso, quando ha finito, mi manda un bacio. Allora mi protendo verso il lumacone e poi me ne vado, senza voltarmi, come non sentissi i passi leggeri che corrono nell'orto.
Giulia Lenci