Di questa stagione, dove tu vivi, le viole si colgono a secchi. Le donne hanno nomi di fiori e sui tetti s'arrampicano frotte di primule portate dal vento, che al mattino gonfia tende di pizzo e cigola imposte appena socchiuse. Lì da te, il silenzio compatto del pomeriggio è intagliato di nicchie segrete, in cui si tiene fede ad accordi siglati da sguardi, che si sono incrociati un attimo, un giorno per caso. Come il nostro, in quell'estate assurda di foglie secche e tempeste africane, s'è incontrato nello spazio di pochi secondi, sospeso tra l'ombra del portone e la luce accecante di un'ora torrida. Non hai avuto esitazioni, a fermarti e aprirti in un sorriso arrogante, mentre io chiudevo di colpo e l'eco del mio no arrivava alle stanze di sopra della vecchia cascina. Da quel giorno torno tra le tue colline, a immergermi nel profumo di terra e di erba, e di fiori che non conosco. A tratti mi affaccio alle imposte, scrutando le macchie di verde ad una ad una. Mi fai aspettare, muovendoti adagio nelle vigne assolate, da vero padrone, senza degnare di un'occhiata le tegole ardenti sulla radura. Poi ti volgi lento, agganci i miei occhi e, quasi annoiato, risali il sentiero dei campi.
Dormo già - io dormo sempre - quando apri piano il portone e lo richiudi alle spalle, vai in cucina e riempi d'acqua un bicchiere, e finalmente i tuoi passi tranquilli salgono i gradini di pietra e i battiti del mio cuore ti vengono incontro in corsa folle. So che sei sulla porta. Ma io dormo. E' così caldo, lì da te. Appoggi il bicchiere sul cassettone e ti fermi a guardarmi. Lo so, che mi guardi. Le tue ciglia percorrono leggere il mio corpo velato dal lenzuolo e so che intanto sorridi sfacciato. Ma io dormo. E poi. E poi t'avvicini. Mi giunge l'odore di terra ed erba e sudore. Il lenzuolo scivola da me, sulla pelle del seno che freme in un sonno impaziente, sul ventre teso e le gambe abbandonate. E mi sovrasta, improvviso, il tuo afrore d'animale selvatico. Le tue labbra seguono indolenti il pulsare impazzito della vita sul mio collo e più giù, dove la tua lingua guizza con sapienza primordiale, alla ricerca di corde nascoste che palpitano in attesa di vibrare in suono muto al ritmo d'un frinire di cicale, che forse è sogno in cui sprofondo, mentre mi stringi i fianchi tra calli duri, marchi indelebili come sigilli di antica memoria. E varchi sicuro il mio corpo e violento affondi, senza riguardi per come o per quando. E' il tuo canto roco e selvaggio, indifferente alle note sempre più acute, che sciolgono in me ritornelli flebili e infine silenziosi.
A poco a poco si perdono i passi che scendono le scale, fino a morire in nota buia d'un battente accostato pian piano. Allora apro gli occhi. Sul cassettone è sbocciato un fiore, che gentile sorride dal bicchiere di vetro.
Giulia Lenci
Giulia Lenci