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Racconto n° 1143
Autore: Giulia Lenci Altri racconti di Giulia Lenci
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Danza
Qui da me, questo è il mese dei colori delicati. Sono rosa e sono bianchi morbidi contro l'azzurro indeciso del cielo. E tutt'intorno, il tenero verde dei germogli.
- Non mi piacciono le slavature. Preferisco tinte forti. - hai detto.
Così la tua casa è rimasta chiusa a lungo, circondata dai campi di maggengo. Ti ho chiesto di tornare. Hai riso, dicendomi: - Bifolco. -
Nel mio silenzio, ho continuato ad aspettare, alzando gli occhi ogni tanto alla casa abbandonata.
Gli amici ridono di me. - Ehilà, mangi lucertole? -
Sì, sono dimagrito e ho la faccia tirata di chi mastica da giorni un boccone amaro. Perciò ho iniziato il corso di ballo, giù in città, dove le donne sorridono e non m'insultano.
(Nella danza è il cavaliere, che comanda.)
Stasera mi sono vestito elegante, come tu dovresti vedermi per ridere più forte, e con le mani in tasca mi sono affacciato al portico su in alto, dove accatasto il fieno per il lungo inverno. Guardavo il sole indugiare sul profilo dei boschi, mentre l'aria rinfrescava appena. Poi, giù a valle, nella strada che sale tra i prati, è stato un lampo, un'occhiata maliziosa del sole prima di scavalcare la collina. Sul parabrezza della tua automobile. Che pigrava tra il verde come un enorme coleottero, marciando indolente, la corazza lucida, impenetrabile. Mi sono ritirato in fretta, sperando che tu non m'avessi visto. Ma che importava? Avevo già deciso la mia serata e tu ne eri esclusa. Tu. Tu, che non ami le slavature, e per questo te ne vai in giro per il mondo a cercare altro. Escludendomi.
(La dama va dove la porta il cavaliere.)
Inebetito, sono rimasto appoggiato al muro accanto alla finestra, osservando un grosso insetto sbattere spasmodico contro il soffitto, in cerca di una libertà a portata di mano. Quando la luce è appassita al mio fianco, ero indolenzito, come mi fossi dibattuto a lungo tra quei muri vecchi. Scendevano le prime ombre.
Non avevi aperto le imposte e non c'erano luci accese. Camminavo tranquillo verso la tua casa, i muscoli tesi e dolenti nello sforzo di non correre, e intanto mi allentavo il nodo della cravatta, troppo stretto intorno al collo che voleva scoppiare. La porta era accostata. L'ultimo barlume di coscienza è balenato in me: le dico bentornata e me ne esco pian piano.
Ma ho visto le impronte. E ho chiuso la porta. La tua maledetta abitudine. Me l'ero quasi scordata, sai? Uscire dalla doccia coi piedi bagnati per asciugarti con calma in camera da letto e dirmi:
- Passami l'asciugamano qui e qui e qui. -
Deglutendo ho seguito quel profumo che mi piace, leggero, frizzante e inafferrabile.
- Buonasera. - ha sussurrato la penombra della stanza.
Eri già vestita, seduta in mezzo al letto, le gambe sollevate, i polpacci incrociati. Sorridevi, abbronzata, avvolta in qualcosa di giallo che brillava sulla pelle scura, gli occhi luminosi.
(Per assurdo, se il cavaliere è fuori tempo, anche la dama va fuori tempo.)
- Ti ho portato un regalo. - hai detto.
- Te lo puoi tenere. - ho risposto stringendo i pugni.
- Sicuro? -
E soltanto allora ho realizzato che avevi addosso una camicia da uomo, il colletto affogato sotto i tuoi capelli, abbottonata fino in fondo. Ho allungato una mano.
- Cosa. Cosa vuoi? Cosa? - hai chiesto.
- Il mio regalo. - ho rantolato.
Ti sei spinta indietro, appoggiandoti ai gomiti. Mentre slacciavo il primo bottone, il tuo viso si è chinato e le labbra hanno afferrato il mio pollice, serrandolo in una morsa morbida e sicura.
(E' il cavaliere che dà il cenno d'inizio, la dama attende.)
Era da tanto che non sentivo la tua lingua sciogliersi intorno a me, dilungarsi su di me senza premura, in un avvolgersi e svolgersi continuo e fluido. La danza ingenua e perversa di un animale che si contorce, e annoda nelle sue spire la resa della volontà: la mia voglia di te.
(Il cavaliere deve far sentire la forza del comando, con garbata decisione.)
Poi hai sollevato il mento fino a tendere il collo in un piccolo arco sulla massa di seta dei capelli sparsi sul cuscino. Ho slacciato il secondo bottone, insinuando con impazienza le dita tra la stoffa, a scorrere la pelle liscia e sentire il turgore del seno venirmi incontro a riempire il palmo, mentre qualcosa in me diventava insopportabile e le mie mani aprivano i due lembi della camicia, strappando con forza gli altri bottoni. Hai avuto un sussulto e ad occhi chiusi hai sorriso.
(Il cavaliere sostiene la dama, che oppone una discreta resistenza.)
Non è un ballo standard, che ti piace, ma una danza primitiva in cadenza sincopata, in cui ti dimeni riversando la frenesia nel gorgoglio di toni liquidi che solo tu sai interpretare.
(Il cavaliere allaccia la curva dei fianchi, spinge sui punti di contatto che servono a guidare la dama e portarla fino alla fine del ballo.)
Allento la pressione scostandomi un po'per guardarti. Le tue ciglia hanno battiti lievi, mentre le tue mani scivolano su di me, a convincermi a ricominciare,senza pause.
(Il cavaliere deve capire se la musica è finita o se è una battuta d'arresto.)
Infine la notte è arrivata, chiudo la tua porta e me ne vado, perché il tempo a mia disposizione è terminato, lo so.
Lassù le stelle fremono. Forse ridono. Ma anch'io sorrido.
Giulia Lenci

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