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Racconto n° 1145
Autore: Dunklenacht Altri racconti di Dunklenacht
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Blu di Prussia
Folate di vento freddo spazzavano la darsena deserta.
La vedevo dalla finestra socchiusa di quella camera, che dava sul mare. Ammiravo la spuma selvaggia dei marosi che si infrangeva sugli scogli bianchi, qualche veliero che affollava la baia, la luce vaga di un faro, che andava a veniva, come quella di una stella.
Era l'alba.
Giungeva a me la voce lontana dei gabbiani; a tratti, una folata improvvisa faceva sbattere la finestra.
L'avevo ancora tra le mie braccia.
Le mie mani continuavano a toccare il suo busto nudo, simile a quello di una statua greca, i suoi occhi ancora mi guardavano stupiti, quasi per chiedermi di nuovo quel piacere di fuoco.
La bella cercò di parlarmi.
Posai un dito sulle sue labbra rosse. Era per raccomandarle il silenzio.
Lei si sdraiò di nuovo sul letto, mi fece cenno con l'indice di avvicinarmi, sorridendo maliziosamente, ma era tardi, troppo tardi. Stringevo i suoi capezzoli rosa tra le mie mani robuste e tozze, li strinsi troppo forte, le feci male.
- Ah! – le sfuggì dalla bocca.
Avevo sentito la morbidezza dei suoi capelli, avevo penetrato la dolcezza del suo grembo, l'avevo fatta gridare e disperare per la passione, che aveva bruciato entrambi.
Era ora di andare.

Il suono di una sirena lontana mi richiamò all'ordine.
Soffiai sulla candela per spegnerla.
Presi la sciabola, che avevo deposto accanto al letto, indossai la mia uniforme da ufficiale, dai bei bottoni d'oro e dalla bandoliera bianca, presi il cappello d'ordinanza, di feltro nero, ornato di piume rosse.
I cavalli bianchi del silenzio erano arrivati da lontano, forse, dall'alto mare, per riempire della loro maestà la rada e il porto.
Le case erano ancora tutte imbandierate. Lo erano sempre, lo sapevo. Da ogni finestra pendeva la grande bandiera a strisce rosse, bianche e blu, che la brezza del mattino faceva volare piano. Non era per la parata che il villaggio era così addobbato, né per qualche occasione particolare. Era costume tenere esposti i simboli della patria, in quel paese, come del resto in tutta la Normandia.
I lampioni erano ancora accesi. Qualche finestra era illuminata.
E a tratti, giungeva a me la voce grossolana di qualche scaricatore di porto, di qualche gradasso, che finiva di scolare le ultime bottiglie o già aveva cominciato il suo lavoro. Avevo l'impressione di sentire il rumore delle casse, le bestemmie dei padroni, o il suono delle frustate dei marinai, sulle schiene dei loro mozzi.
Qualche veliero era ormeggiato nel porto.
Aveva le vele spiegate, come fosse pronto per partire.
Un vecchio marinaio dalla barba bianca che fumava la pipa mi chiese che ora fosse. Scrutava il cielo, avrei giurato che sapeva il nome di ognuna delle nuvole grigie che lo abitavano, e che salivano dal mare, trasportare dal vento freddo del mattino.
La nebbia faceva apparire le case del villaggio come dei fantasmi.
Erano case dai tetti un po' spioventi e dai vetri all'inglese, dipinte di grigio. Da qualche camino saliva il fumo, altre avevano le imposte chiuse e le porte sprangate, forse, nessuno più vi abitava.
Due o tre marinai ubriachi parlavano di naufragi e di tempeste.

Ricordo che in quegli anni facevo l'ufficiale in quel paese della Francia settentrionale, tutta la mia gloria era la sciabola che portavo al fianco, l'alta uniforme e il mio cappello. Quando c'era la parata, e marciavo sul mio cavallo bianco, alla testa dei miei soldati, lo sguardo di tutte le giovani donne era per me.
Alcune di esse tenevano in mano dei mazzi di fiori bianchi e rossi, che ricordavano i colori della patria.
Accadde un giorno che una fanciulla più coraggiosa delle altre osasse lanciare il suo mazzo verso di me... Tutti la guardarono spaventati, ma la bella non rimase atterrita, anzi mi guardò profondamente negli occhi.
Non la rividi più.
Sapevo che non sarei rimasto per sempre in quel luogo. Già vedevo arrivare una di quelle locomotive a vapore, di colore nero, che viaggiavano nell'immenso spargendo intorno un fumo bianco...Avevo l'impressione di rivedere la vecchia stazione di Parigi, dove tutti i giovedì pomeriggio arrivava il treno di Normandia. Il sabato, c'era una folla di donne ben vestite, dai cappellini rotondi decorati di fiori turchini: arrivava il treno dei mariti.
Non sapevo se avrei fatto ritorno nella capitale, i misteri della vita militare non mi appartenevano.
Portavo tante medaglie d'oro e d'argento, ero così giovane...

Vi voglio narrare di chi fosse il corpo eburneo che stringevo tra le mani, e di cui vi ho accennato, come in una visione, all'inizio del mio racconto. Il suo, era il corpo di una statua, fatta di marmo, più che di carne mortale.

Nelle ore del tramonto passeggiavo a volte lungo la spiaggia, quella spiaggia dalle sabbie bianche, bagnata dal freddo mare di Settentrione. Era sovente avvolta dalle brume, il rumore più forte era il costante sussurro delle onde, che una dopo l'altra morivano accanto a me, ciascuna recando i ricordi dell'immenso.
In quei pressi si trovava la Casa per Alienate di Saint-François, una specie di grande ospizio fatto di legno, che, al calar della notte, quasi faceva paura. Apriva due dozzine di finestre verso la spiaggia, e altrettante verso il mare; non ne aveva sulla facciata, che dava sulla strada principale.
Pareva l'avessero costruita quasi sulla sabbia, i vecchi marinai dicevano che l'avevano fatta lì perché speravano che il mare avesse misericordia di quelle disgraziate, e con un'ondata improvvisa portasse tutto via con sé.
A volte, capitava di vedere affacciarsi alla finestra qualcuna delle pazze, era una bella fanciulla dai capelli biondi, che quasi brillavano negli ultimi raggi fatati del sole al crepuscolo. Vi guardava, e, a volte, faceva dei saluti, agitando in aria il suo cappello di paglia ornato di un nastro rosso, oppure annunziava l'arrivo dei cavalieri dell'immenso, o vi tirava un bacio.
Dicevano che le tenevano legate e imbavagliate, o con la camicia di forza. Alcuni affermavano che bastava pronunziare il nome di Napoleone III o di Balzac per calmare le più furiose.
Una volta, ero capitato in quei paraggi nell'ora della ricreazione.
Era mezzogiorno e c'era il sole.
Le pazze erano tutte vestite con la stessa divisa, a colori bianchi e blu, tutte portavano in testa lo stesso cappellino di feltro turchino, ornato di fiori finti, dal lungo gambo giallo e dai petali arancioni.
Molte di loro giocavano a rimpiattino, altre, facevano finta di picchiarsi, altre ancora ruzzolavano per terra, o recitavano per finta, tenendosi per mano. Alcune portavano sottobraccio un cesto dorato pieno di margherite, e le regalavano una ad una al vento.
- Oh, è arrivato un bel signore! – disse una pazza.
- Com'è tutto agghindato! E' un vero gentiluomo!
- Bel signore, vuoi giocare con me? Vieni che ti racconto le favole!
- Prendiamolo!
Le tutrici erano distratte.
Una delle pazze – bellissima ragazza dai lunghi capelli tinti di verde, che risaltavano molto sulla mantella turchina – venne accanto a me e tentò di baciarmi sulla bocca.
- Vieni qui che ti do un bel bacio!
- Uh, la sconsolata è innamorata! – le fecero eco le altre.
- Vuoi fare l'amore con me, bel signore?
- Stai attenta, non farlo scappare via!
- Vuoi fare l'amore con me? – ripeté la pazza.
A quel punto le fecero lo sgambetto.
- Ti amo alla follia, sarai il mio uomo! – continuò a dire, ridendo. – Vieni qui, ti abbraccio!
- Bel signore! Bel signore! – ripetevano in coro le altre.
- Non andartene! Vuoi scopare con me?
Teneva l'indice sulle labbra e mi tirava dei baci.
Improvvisamente, venne richiamata con voce severa:
- Clara!
Già mi ero allontanato. Ma non avrei saputo dirvi quale era stata l'emozione suscitata in me dall'incontro con quegli occhi. Erano così celesti, e folli...
Avevo giurato a me stesso, toccando le mie medaglie d'oro e d'argento, che non avrei dimenticato quegli istanti. Un volto, forse, quel volto, mi era rimasto nel cuore.
Accadde che incontrassi di nuovo quella giovane, da sola, sulla grande scala di legno, che dava sulla spiaggia, mentre salutava i gabbiani uno ad uno, agitando al vento il suo fazzoletto blu di Prussia.
Mi salutava...
Un giorno in cui la nebbia avvolgeva le case e il porto, decisi di rapirla, e di portarla per sempre via con me. L'avevo vista piangere, e questo aveva contribuito a farmi prendere quella terribile decisione. Era notte, non mi aveva visto nessuno.
Correvo sotto le stelle con lei addormentata tra le braccia, sulla spiaggia...
Mi confidò più volte di non essere mai stata matta, ma di avere sempre e soltanto scherzato.
Ricordava appena gli schiaffi e le crudeltà che le infliggeva suo padre, quando abitavano insieme nella grande casa dorata, piena di bambole e di gioielli. Lui era ricco, ma fin da quand'era piccola la trattava da pazza.
L'aveva portata alla caccia alla volpe, ma lei, quel giorno, non aveva sparato in aria, no... I cani latravano, i cavalli nitrivano spaventati, un uomo era morto, ma non per un incidente.
Eravamo nascosti nella nostra camera d'albergo, mentre mi narrava quella storia triste, ma ad un tratto s'interruppe, e mi diede uno schiaffetto.
- Ci hai creduto? No, non sono una delle alienate, sono la figlia della direttrice, e posso fare ciò che desidero della vita.
Sorrise, mostrando i suoi denti d'avorio, perfetti, che quasi brillavano sullo sfondo delle sue labbra rosse.
L'avevo vestita da ballerina, con una specie di tutù rosso, che lasciava scoperte le belle gambe, velate da calze nere, con la giarrettiera.
Aveva un cappellino nero con le piume, sui capelli ancora tinti di verde, lunghi fino alle spalle. I suoi grandi seni si alzavano e si abbassavano ad ognuno dei suoi sospiri. Le sue braccia erano nude, ma le sue mani erano avvolte in guanti di velluto, color nero perla, le sentivo sul mio corpo irsuto, e, credetemi, era un'emozione così intensa!
Improvvisava dei passi di danza davanti a me, alla luce delle candele. Forse, era ubriaca. Rideva forte.
Avevo l'impressione di udire un'armonica; era un'illusione, lo sapevo, ero solo con lei in quella camera d'albergo tappezzata di seta di Persia. La bella mi faceva vedere le gambe, che erano così lunghe e tornite, e si muoveva flessuosa sulle sue scarpine color perla.
L'avevo già quasi completamente spogliata. Clara aveva cominciato a respirare forte, era eccitata. Aveva indosso soltanto le sue calze nere, velate, le sue scarpe, e poco altro.
- Voglio sedermi sopra di te! – diceva, sorridendo maliziosa.
- Lasciati toccare...
- Dai, prendi la tua sciabola da ufficiale! Fammi sentire quant'è aguzza, quanto taglia, avanti.
Era stata lei a slacciarmi i bottoni e a togliermi la divisa. Aveva preso la sciabola, e faceva scorrere la lama sul suo corpo ormai nudo, follemente.
Mi mostrò i suoi tatuaggi, ne aveva uno sulla spalla, un altro alla caviglia, un altro sulla coscia. Erano parole in giapponese, o figure di draghi, che, diceva, le aveva impresso nella carne un vecchio marinaio, venuto da lontano, il cui veliero era naufragato poco lontano dalle coste di Normandia.
- Chi lo sa, forse un giorno mi farò disegnare addosso anche la bandiera di Francia!
Non scherzava più.
Mi sedetti su una sedia Thonet, di quelle da caffè, presso il letto, e lei si mise sopra. La penetrai con forza, strappandole un grido. Poi cominciò a muoversi, a scopare. Ogni volta che il membro entrava e usciva da dentro di lei, gettava un piccolo urlo soffocato.
Stringeva il suo corpo al mio, e io stringevo il mio al suo. Sentivo la pressione delle sue gambe lisce quasi attorcigliate intorno alle mie, ansimava.
Diceva - ah, ah, più forte... - , durante l'amplesso, lei perse uno dei suoi guanti, e mi fece sentire la sua mano nuda sulla pelle.
Le misi un dito fra i denti bianchi, aguzzi, mentre la vedevo godere, e lei me lo strinse prontamente.
Alla fine, gridavamo entrambi di piacere.
Poi, la candela di spense, la bella si sdraiò sul letto e prese a giocherellare con i bottoni della mia uniforme, con il mio cappello, con le mie armi dorate, dal manico decorato d'oro e di smeraldi, che sembravano create dalla fantasia di un gioielliere.
Mi sentii baciare sulla bocca più volte, nel buio.
Si rivestì da ballerina molte altre volte, lo facemmo ancora, diceva che sarebbe voluta vivere con me per sempre, ma poi...
Una volta, eravamo soli sulla spiaggia, non ci vedeva nessuno, avevamo giocato sulla sabbia bianca.
Eravamo presso la scogliera, dove c'era il grande faro con la bandiera, il mare era mosso, soffiava il vento freddo.
Gli occhi di lei erano folli...
- Tu sai chiamare per nome i gabbiani? – mi diceva. – Conosci i loro nomi?
- Sei triste? – le chiesi.
- No, niente...
La luce del faro andava e veniva, come l'apparizione di un fantasma, nella nebbia.
Avevo freddo.
- Andiamo marinai, è ora di andare e di partire! – la sentii gridare; pareva scherzasse. – Issate le vele, prua a babordo, a babordo...
Sulla spiaggia c'era una scialuppa abbandonata. Clara l'aveva vista, vi saltellava intorno.
Il cielo tradiva la tempesta. Presto avrebbe piovuto, o forse, nevicato. Giungevano fino a me le voci di marinai lontani. Mentre le ascoltavo, era come se mi rapissero, vedevo il grande faro davanti a me, perduto nelle brume, sentivo le onde che s'infrangevano sugli scogli.
Un brivido m'assalì.
Mi voltai di scatto, e vidi Clara sulla scialuppa, aveva preso il largo, e nessuno, no, nessuno avrebbe potuto riportarla indietro.
Stava dritta a prua, i capelli al vento, in quel mentre, una folata improvvisa fece volare via il suo cappellino.
- No! No! – gridai, in preda alla disperazione. – Non farmi questo! Clara!
Ma ella mi salutava di lontano, agitando il suo grande fazzoletto color blu di Prussia. Fu allora che decise di concedermi un ricordo di se stessa, e lo gettò verso la spiaggia.
Lo presi, e ne sentii il forte profumo, che mi avrebbe parlato di lei per sempre.
Il grande faro spargeva la sua luce cupa in ogni dove, saliva la nebbia, i marinai cercavano una scialuppa scomparsa.
Non la trovarono mai più.
Partii il giorno dopo, con il treno di Normandia, con quel morbido fazzoletto blu legato intorno al collo.

Dunklenacht

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