Avrei voluto essere la figlia di Chopin.
Me lo ripeto spesso, mentre passeggio tutta sola per le strade della mia città, dove c'è una cattedrale gotica, un tribunale dove si celebrano processi misteriosi e tristi, e tante ciminiere dalle quali sale un fumo grigio come la nebbia che avvolge ogni cosa.
Ho dei lunghi capelli rossi, che amo lasciare accarezzare dal vento, sono sempre ben truccata, e le mie labbra sono scarlatte come la passione, ma non vi ho ancora detto che suono il violino.
Don, don, don, i rintocchi di una vicina campana mi richiamano alla vita, e spezzano l'ultimo dei miei sogni perduti. Mi affretto, correndo a grandi passi sul grande prato verde, sul quale mi piace spesso di camminare scalza, con in mano le mie scarpette rosse coi tacchi a spillo, che adoro.
Un passerotto si posa sulla mia spalla, cerca invano
delle briciole di pane, che non posso dargli...
Poi, vola via.
Mi ripeto spesso che mi piacerebbe essere come una donna dell'Ottocento, una specie di Signora delle Camelie, e tirare su maliziosamente la lunga gonna turchina per evitare di bagnarla nelle pozzanghere... Mi sembra di vedermi. E così, con quel gesto, mostrare a tutti le mie belle gambe...
Una folata di vento freddo rapisce il mio cappellino. E' autunno.
Mi affretto e cerco di riprenderlo, ma passa un autobus, lo travolge, e lo porta via con sé.
Allora abbasso le mie lunghe ciglia nere, che tanto s'intonano con il colore dei miei occhi (azzurro cielo), e così, malinconicamente, penso che quello stesso destino avranno i miei doni di giovinezza, fatti per svanire uno ad uno come foglie nella brezza d'autunno.
Passa un vecchio dalla barba bianca, appoggiandosi con fatica al suo bastone, mi guarda... E io gli rivolgo il mio sguardo pieno d'affetto, poso due dita sulle labbra rosse, come per regalargli un bacio.
Follie!
E mi vengono in mente le note più tristi di Schubert, di Rachmaninov, quelle che sanno dei paesaggi deserti della Russia, di lande innevate, di carri guidati da streghe, che frustano senza pietà i loro cavalli del mistero, in viaggio verso Mosca.
Quante volte mi ero letteralmente smarrita su quegli spartiti, a provare e riprovare le note doppie, le semicrome, i difficili passaggi da una tonalità all'altra, che assomigliano ai passaggi da una stagione all'altra della vita!
Io e i miei tre amici – dimenticavo di dirvelo – avevamo organizzato un bel quartetto d'archi per il giorno della mia festa.
A dire il vero, capitava spesso che suonassimo insieme, soprattutto il mercoledì, e non di rado, ve lo confesso, i nostri pomeriggi musicali svanivano negli scherzi, o nelle lacrime.
Avrei suonato col violino nuovo, che valeva una fortuna.
Il liutaio che me l'aveva venduto, forse rapito dalla bellezza del mio volto di perla, mi aveva trattenuta per un'ora nel suo atelier, raccontandomi una lunga storia. Io l'avevo ascoltato, accarezzandogli la spalla con la mia mano bianca... gli avevo anche permesso di toccare i miei morbidi capelli.
E lui mi aveva narrato dei boschi innevati della Siberia, di come quel violino avesse un suono che sapeva stregare, perché era costruito con il legno che veniva dalle foreste dei maghi. Oh, nessuno sapeva di che albero fosse, ma si diceva che il vento imprigionasse la sua voce di fuoco in quei tronchi, era una voce che sapeva raccontare di passioni e di amori mai visti, di favole meravigliose, di fate bionde addormentate sulla neve, di uomini costretti a lavorare sulla neve per l'eternità, legati con catene, di cavalli bianchi e selvaggi, di principi che con le loro carrozze d'oro ritornavano ai castelli del mistero.
Alla fine, il liutaio volle che gli regalassi uno dei miei baci.
E io lo esaudii, dolcemente...
Ma torniamo al giorno del concerto, il gran giorno.
Eravamo d'accordo: avremmo suonato un raro quartetto di Chopin, per soli archi (violino, viola e violoncello, per intenderci). Era inconsueto un quartetto per soli archi, poiché Chopin scrisse pressoché sempre e soltanto per pianoforte.
Dicevano che fosse un'opera postuma, o forse, un falso, scritto da qualche appassionato di Romanticismo. Io l'avevo suonato soltanto una volta, al conservatorio, alcuni anni prima, e me lo ricordavo a malapena.
E venne il gran giorno. Ma dimenticavo di dirvi chi sarebbero stati i miei compagni: la mia amica Françoise, al violoncello, suo fratello Pierre, e un giovane che quasi amavo, Karl.
Avremmo suonato nella grande stanza dei fantasmi, nella mia casa.
Io la chiamo la stanza dei fantasmi, perché vi tengo un gran numero di mobili antichi, pezzi rari di antiquariato, appartenenti alla mia famiglia.
Ve la descrivo: grandi specchiere con fregi in oro, tavolini d'ebano, quasi in fila indiana, delle ottomane antiche, alle pareti, quadri di pittori celebri, come Picasso o Monet, o Degas, delle scrivanie appartenute forse al Re Sole, sulle quali sembravano dimenticati dei servizi da tè in argento massiccio, o in oro, che dicevano fossero appartenuti alla Regina Vittoria. Io non sapevo niente di queste storie.
C'era anche un letto a baldacchino, dell'Ottocento, decorato con figure d'angeli scolpite nell'ebano e ricoperte d'oro zecchino.
C'erano inoltre dei tappeti, che, dicevano, i mercanti di Turchia avevano rubato ai sultani d'Oriente.
Quel pomeriggio arrivò presto. Dalla mia finestra dai vetri all'inglese, vedevo le grigie nubi che affollavano il cielo. Tirai la tenda, anche se avrei volentieri mostrato ai passanti il mio bel volto, che tutti ammiravano.
- Ciao – salutai i miei amici. - Come va?
- Bene, non c'è male, bellissima. -
Li baciai uno ad uno, sulla guancia.
- Cominceremo presto – dissi.
Offrii loro il tè. Avevo preparato gli spartiti, ognuno portava con sé il suo strumento.
Anch'io avrei usato il mio, quel violino fatato, che la leggenda voleva avesse poteri magici.
- I tuoi capelli sono così belli – disse Karl, carezzandomeli, mentre entravamo in fila indiana nella stanza dei fantasmi.
Amavo sentire la tenerezza di quella mano sul mio volto. Se egli non l'avesse fatto, sarei stata io a guidarlo, a dirgli di toccarmi, di sfiorarmi con la sua folle mascolinità.
Sapevo che prima o poi l'avrebbe fatto, ma non sarei stata certo io a dirgli di smettere.
Ci sedemmo in cerchio, su delle sedie Thonet, simili a quelle che usano nei caffè.
Tutti erano vestiti elegantemente: le signore come delle fate, i signori con dei frac, neri, ma sarebbe stato un concerto insolito, senza altri spettatori che noi.
Avevo socchiuso la finestra, perché i passanti ci potessero udire.
Sarei stata io a suonare le prime note, sulle corde tristi del violino incantato... Erano le note malinconiche che Chopin aveva scritto nell'ultima stagione della sua vita, tra il crepuscolo e l'aurora, tra la felicità e la tristezza, nella Parigi dell'oblio.
Mi sedetti, sciolsi i miei lunghi capelli, che ricaddero morbidi sulle spalle; avevo innanzi a me il leggio, ma i miei occhi non desideravano la lettura di quelle crome, bensì il sogno di quella musica, e gli sguardi del mio uomo.
L'archetto sfiorava le corde...
E fu allora, oh, sì, fu allora che la magia di cui mi aveva parlato quel liutaio ci rapì.
Una nuvola di fuoco di avvolse, il violino parve continuare a suonare da sé. Io mi ritrovai tra le braccia del mio uomo, e facevo l'amore con lui. Era l'estasi, era l'estasi!
Pierre e Françoise continuarono a suonare per noi, quelle note che parlavano di passione e di follia. Le mie labbra rosse baciavano quelle di Karl, che mi stringeva affettuosamente, e io gli ripetevo, rapita dal desiderio:
- Fammi tua... Ti scongiuro, fammi tua... La mia anima e il mio corpo ti appartengono! -
La sua mano correva lungo le mie gambe, le mie braccia nude si intrecciavano alle sue, volle baciarmi la scarpina rossa, col tacco a spillo.
Lo fece.
La viola e il violoncello suonavano assieme al violino stregato, mentre una voce dal mistero (oh, forse quella di Chopin) diceva:
- L'amore e il destino, che già incatenarono le vostre anime, vi travolgeranno! -
Le labbra di lui toccavano i miei lunghi capelli. Le sue mani stringevano i miei seni nudi.
Mi misi a cavalcioni su di lui, mi aggrappai forte alle sue spalle, lo volli dentro di me, oh, sì, lo volli.
E lui non faceva opposizione, anzi, eravamo entrambi rapiti da qualche cosa troppo più forte di noi. Tutto questo, in quella che da piccola chiamavo la stanza dei fantasmi, nella solitudine del suo mistero.
Gridavamo per il piacere; la musica del quartetto, oh, quella musica fatata, continuava sempre, sempre, sempre.
I nostri due compagni, Pierre e Françoise, ci guardavano. Alla fine, Karl venne dentro di me...
Un pianto di passione inondava le mie guance rosee.
Il concerto era finito.
Uno ad uno, salutai tutti i miei amici, baciandoli candidamente sulla guancia.
Pioveva.
Dunklenacht