Quando guidavo i TIR, la mia preferita era la E 35. Le piazzole che si trovano lì non ci sono da nessun'altra parte. Sono dei veri e propri inviti a fermarsi. Una, in modo particolare, era la mia prediletta. L'avevamo battezzata l'Oasi del Pitone, da quelle volta che Manolo e Ramirez s'erano sfidati a chi l'aveva più grosso e, a onor del vero, erano andati a pari merito, anche se io, in privato, avevo poi premiato Manolo che, a mio avviso, c'è l'ha un tantino più tosto. Ma questi sono gusti personali. Dunque, dopo il casello contrassegnato - De puta madre - -nel senso che Ramirez gliel'aveva verniciato sopra, tant'era bastardo quel casellante-, si percorrono sì e no sei chilometri. Ad un certo punto si vede il totem indiano costruito da Oscar con tutti gli stracci che è riuscito ad annodare quella notte della gara di whisky -che ha vinto lui, naturalmente, con otto bottiglie contro le cinque di Manolo-. Ecco, lì, senza spaventarsi del Vanni, che prima spara e poi chiede - Chi è? - , si tira giù il finestrino, si grida a squarciagola - ...orcaleggeeee! - e si svolta più in fretta che si sa nel corridoio di cassonetti messi a bella posta dal Vanni, appunto. E' chiaro che non si accende nessuna freccia per indicare la svolta, ma questo va da sé. Per noi era un segnale di riconoscimento. Chi girava con la freccia era da prendere a sassate. E infatti succedeva così.
Quella notte ci eravamo fermati in tanti, all'Oasi, perché grandinava da impazzire e i cavalcavia erano già tutti impegnati. Non si riusciva a scendere, tanto era fitto quel ghiaccio a cubetti, perciò ce ne stavamo rintanati negli abitacoli, aspettando una tregua. Quando quel TIR svoltò con la freccia, subito sentimmo i botti del Vanni e ci andammo pesante anche noi, con le pietre che tenevamo a bordo per ogni evenienza. Veniva avanti adagio, come se quell'accoglienza gli andasse a genio e, siccome gli partirono i finestrini in un'esplosione di schegge, si fermò vicino a me, che gli tirai l'ultimo sasso che avevo. Lo colpii in fronte e tutto quello che fece fu massaggiarsi lentamente con una mano, guardando nella mia direzione. Scese piano dal TIR, lo vidi alzare il braccio e aprire la portiera del passeggero. Afferrai il coltello. Si issò accomodandosi accanto a me e riprese a massaggiare la fronte.
- Che razza di grandine, da queste parti. - disse strascicando le parole.
- Già. Sembrano pietre. - dissi.
- Hmm... - fece lui.
Si mosse sulla pelle rovinata del sedile, fino a mettersi in modo da vedermi bene in faccia. E mi fissò. Io pensavo che, con la luce accesa nell'abitacolo, gli altri potevano vedere, quindi non rischiavo nulla. Impugnai meglio il coltello tra le gambe.
- Non ne trovo molte. - disse adagio.
- Cosa? -
- Donne camioniste. -
Non risposi, senza perdermi uno solo dei suoi gesti.
- Che stai facendo? - chiese.
- Aspetto che smetta di grandinare. -
- Hmm... -
Abbassò gli occhi sulla mia mano affondata tra le cosce.
- Invece di fare da sola, potrei servirti io. - disse togliendosi quella specie di berretto a scacchi.
Non aveva un bel viso. Troppo ossuto, per i miei gusti, e finchè non si tolse il giubbotto, continuai a pensare che non rientrava nei miei gusti. Senza giubbotto, invece, prometteva bene e, senza quella magliaccia bucata, mantenne la promessa. Un torace niente male, pensavo, augurandomi che il resto fosse all'altezza, perché quella testa era davvero troppo ossuta, per i miei gusti. Allungò le mani verso di me. Allungai il braccio di quel poco che bastava per puntargli il coltello alla gola. Non si scompose, lasciando le mani dov'erano -due arpioni d'acciaio sulle mie tette-, dicendo calmo : - Ti spogli tu? -
A quel punto, Manolo e Oscar -due veri amici- sfidarono la grandine per spalancare le portiere, uno da una parte, l'altro dall'altra.
- Giù le mani dalla signora. - disse Manolo.
- Ti sparo in faccia. - disse Oscar.
Lui tenne gli arpioni dov'erano, girando la testa di qua e di là. Poi guardò me.
- Entra il ghiaccio. - disse placido.
In effetti lo stravento mi scaraventava addosso folate gelide e fastidiose.
- Scendi. - gli ordinò Manolo.
- Gli sparo e lo scarichiamo lontano. - propose Oscar.
Lui non si mosse. Mi disse: - Prima ti faccio vedere il resto. -
Tranquillo tranquillo si slacciò la cintura, abbassò la cerniera e aprì i jeans quel tanto che bastava a darmi l'idea che il resto quadrava con i miei gusti. Tolsi il coltello dalla sua gola, passandomelo tra i capelli, pensierosa.
- Chiudete e state in guardia. - dissi.
Le portiere sbatterono.
- Spegni la luce. - disse.
- Togliti tutto. -
Obbedì ed io gettai dal finestrino i suoi quattro stracci. Spensi la luce. Adesso pioveva a dirotto. Sui vetri, il velo d'acqua scendeva a cascata, a tratti scostato dal vento. Mettendo il coltello tra i denti, mi spogliai anch'io. Passai le dita sul suo torace, scivolai sul ventre e afferrai ciò che solo m'interessa in un uomo. Affondai il coltello nel sedile, di taglio, esattamente sopra la sua testa.
- Muoviti e sei morto. - sussurrai.
Spalancò gli occhi mentre un fulmine brillava sull'Oasi. Guardò in su.
- Non posso muovermi per niente... - disse, sentendo il filo della lama teso sui capelli.
- E infatti tu non ti muovi. - dissi montandogli cavalcioni.
Posizionai le sue mani dove piace a me - sui fianchi, con i palmi che lisciano – e cominciai a muovermi su e giù. Lo adoro, il temporale. E' tutto un crepito, mentre ansimo e a occhi chiusi cavalco nella pioggia, e tra le mie gambe qualcosa di vivo palpita e si contrae. E' il corpo di un animale, caldo e scalpitante, che domino con la mia volontà e la posizione di forza, stringendolo tra le cosce, impegnandolo in un trotto vivace. Non si prova nemmeno a disarcionarmi. Sa cosa gli succederebbe. Poi passo ad un galoppo sempre più veloce, perché ho terrore dei fulmini che m'inseguono dal cielo e soltanto alla fine della corsa sono al sicuro, esausta, tra due braccia che mi stringono e la testa rovesciata a riprender fiato.
Rivestendomi, urlai dal finestrino: - Oscar! -
Lui corse sotto la pioggia. Tirò il fagotto dei vestiti oltre me.
- Ehi, rivestiti. - gli ordinai.
- Il coltello. - gorgogliò.
Lo sfilai dal sedile.
- E' stato un piacere. - dissi, indicandogli la portiera.
Borbottò - hmm... - e scese, calmo calmo.
Lo vidi allontanarsi sul suo TIR, con una mano sfregandosi la testa, su in alto.
Aveva quasi smesso di piovere. Potevo scendere a bere qualcosa con gli altri.
Oscar si affacciò al finestrino dalla mia parte. - Ti va una birra? -
L'altra portiera si aprì e il viso di Manolo si avvicinò al sedile ancora tiepido. Scrutò lo squarcio nella pelle.
- Sei andata più in su, stavolta. - mugugnò.
- E' un po' più alto di te, forse. - risposi.
- Non è che gli hai lasciato un po' d'autonomia, a lui? - brontolò musone.
Oscar rise. - Ma un gentiluomo non farebbe mai una domanda del genere a una signora. -
- Io sono un camionista. - disse Manolo.
Controllai il taglio verticale, trovandomi faccia a faccia con Manolo.
- C'è una goccia di sangue. Dev'essersi mosso un po'. -
Manolo s'imbronciò duro. Oscar rise. Andammo a bere.
Giulia Lenci
Giulia Lenci