Queste poche righe, scritte con le ultime gocce di inchiostro blu del mio calamaio, sono forse l'ultimo ricordo di una persona che amava.
C'era una volta una vecchia fornace, tutta di mattoni rosso cupo; l'avevano costruita nell'Ottocento, sapete, con un gran camino alto fino al cielo, da dove, un tempo, saliva un fumo grigio grigio, che sapeva di mistero e di malinconia.
Forse, nessuno più ormai si ricordava della sua esistenza.
Avevano deciso di costruirla vicino al Bosco Grande, dove, dicevano, abitavano i fantasmi, che l'avrebbero custodita dai malintenzionati.
Ora, le vecchie querce soltanto parlavano a quei vecchi forni, a quei muri di pietra rossa ormai decrepiti e ricoperti di muschio, a quei bracieri dimenticati, dove, tanti anni fa, le fiamme divoravano i metalli.
La leggenda, tuttavia, raccontava che di tanto in tanto un fuoco misterioso pareva scaturire dal nulla, e bruciava, bruciava e bruciava, in quel luogo desolato e triste, dove, si diceva, era possibile ascoltare le voci dei bugiardi, che una sottile maledizione aveva fatto morire disperati giù dal burrone.
Poteva accadere all'improvviso, e nessuno ne conosceva la ragione.
Passeggiando lungo il sentiero che conduceva alla vecchia fornace pareva di ascoltare le voci rauche degli uomini che vi avevano lavorato un tempo, sembrava di risentirli bestemmiare, imprecare e maledire il giorno in cui erano nati, li vedevate intenti ad alimentare le fiamme senza requie, gettando con i loro pesanti badili il nero carbone nelle fauci di fuoco di un gigante ingordo e senza cuore.
Erano cinque, sei, forse di più.
- Dagli, tu! E sbrigati a portare quel sacco di carbone, somaro!
- Mollagli una pedata, che così si sbriga, il nanerottolo!
- Chiudi il becco, o ti schiaffo la pala in bocca e ti faccio saltare via tutti i denti!
Erano tutti uomini dalle lunghe barbe incolte, o dai volti anneriti e bruciati dalle fiamme, si lanciavano delle ingiurie, e bestemmiavano senza fine.
Non sapevano fare altro che imprecare e lavorare, con le loro robuste braccia irsute, pesanti come il ferro, i loro petti muscolosi e nudi, anche nelle giornate di neve.
Ah, quella neve bianca, che ricopriva il bosco del suo manto!
Forse, erano dei forzati, legati con invisibili catene di piombo, e costretti per l'eternità delle eternità alle fatiche dell'inferno.
Visioni!
E lei, quell'angelo, le dimorava e le illuminava della sua luce triste.
Dicevano fosse arrivata da lontano, da un paese in cui gli uomini costruivano le case con il legno e veneravano il fuoco, gli alberi e la tormenta.
Portava un cappello dalle piume bianche e il suo corpo eburneo era avvolto in un manto nero come la perla...
Era a lutto, sì!
In grave e disperato lutto, per la perdita del suo amore.
Nessuno sapeva se fosse lucida o pazza, ma io credo, oh, davvero credo, che i pensieri suoi fossero come le nebbie che di tanto in tanto si levavano dal fiume, e andavano ad avvolgere le tombe dell'Isola dei Morti.
La sua mente volava via, come i petali di una rosa al vento, o forse, come il Carro della Morte, che, guidato da un cocchiere cieco e vestito a lutto, vaga senza meta e rapisce gli infelici. La sua frusta sferza senza pietà i cavalli bianchi...
Era la Signora della Fornace.
Ella amava tanto vagabondare in quei luoghi tristi, dove un tempo le fiamme ardevano come la passione e i metalli scorrevano come fiumi di fuoco.
Una volta – era autunno – la vidi sotto il grande faggio, mentre passeggiava sul tappeto di foglie morte che ne ammantava le radici.
Un corvo si era posato su un ramo accanto a lei, e le parlava, oh, sì, le parlava, e la bella comprendeva le parole di mistero che le narrava quel signore del silenzio.
Forse, erano presentimenti lugubri, forse, storie d'amore che si sarebbero avverate di lì a qualche giorno, vissute da dolci fanciulle dalle guance rosee e gli occhi troppo verdi per brillare.
Il vento sollevò una nube di foglie morte...
Il corvo s'involò, ed ella disparve così, come in un sogno che se ne va quando alla notte segue l'aurora.
Le parlai sovente, e mi accorsi così di quanto le sue labbra rosse potessero tremare di passione.
Mi raccontava mille storie, di calderai, garzoni e gente che portava la legna e il carbone sulle gerle, tutti maledettamente infelici, tutti maledettamente schiavi di una passione chiamata amore, che li aveva uccisi dopo averli fatti bruciare per tutta la vita.
Era come se, uno dopo l'altro, la bocca di quella fornace li avesse liberati.
- Io sono stata come loro, sai? – mi diceva. – E la mia vita bruciò così...
- Hai freddo? – le chiesi, mentre una folata di vento freddo le faceva volare via il mantello.
- E come può averne un'anima che brucerà per sempre di passione, la stessa che in vita sua ha divorato il suo corpo? – mi rispose, sorridendo.
Era bionda, e aveva la bocca rossa come il fuoco. Eravamo lì, soli, presso la grande ciminiera della fornace, i suoi capelli mi accarezzavano le spalle, e il destino aveva voluto che potessi stringere il suo corpo nudo tra le braccia.
Ma la Signora della Fornace non aveva corpo...
- Aspetta, vado a riprenderti il mantello – le dissi.
- No, no, lascia... Me lo riporterà il vento!
Sorrise, mostrandomi i suoi denti di perla. Quel sorriso brillava di mistero e di malinconia, di piacere e felicità rubati.
Mi disse di essere morta giovane, quand'era poco più che una bambina.
Sua madre l'aveva mandata a prendere il carbone, e lei aveva pensato di andare alla fornace, per vedere gli uomini dalle lunghe barbe...
Lungo la strada aveva inciampato più volte, e un signore dal mantello nero l'aveva invitata a seguirlo, per poi svanire nelle nebbie.
Lei si era messa a fare gli scherzi agli operai, a quegli uomini malvagi... Uno di loro l'aveva presa, e, per farle paura, l'aveva messa a testa in giù sopra la grande bocca di fuoco...
- Aiuto, aiuto! – aveva gridato, dimenandosi, e il perfido, in quel mentre, aveva perduto la presa, lasciandola cadere giù, tra le fiamme della fornace.
- Vuoi fare l'amore con me? – mi chiese, un giorno, mostrandomi il suo corpo di donna matura.
- Sì, lo vorrei, e molto... - risposi.
Ma la bella mi disse che se l'avessimo fatto avrei avuto il suo stesso destino.
La Signora della Fornace camminava scalza sull'erba, tenendo in mano le sue scarpe rosse con i tacchi a spillo.
Toccai le sue lunghe gambe bianche, i suoi piedi perfetti, i suoi seni dai capezzoli rosa, sfiorai con le mie labbra le sue, rosse come il corallo.
Sussurrai...
Mi parve di sentirla sorridere, o forse, sogghignare e piangere, ma solo per amore.
Ed ella svanì, trasformandosi in una rosa rossa tra le mie mani fredde.
Dunklenacht