Era Arizona, quella volta. Un bastardo di guerriero che non voleva arrendersi. Da giorni ci faceva correre in quell'inferno, che neanche di notte dava tregua. Calava il sole come un pugno di fuoco oltre montagne di cinabro, per ricomparire poche ore dopo con il vigore rabbioso di un uppercut violento contro il cielo sbiadito. Ci rintanavamo in grotte umide di un'acqua chiara che fremeva sotto pietre antiche ed usciva a fiotti spinti in gole sempre più ampie, sempre più alte, per ricadere in cascate conosciute a pochi.
Noshi era uno dei pochi, ma forse l'unico a sapersi muovere nell'oscurità dei cunicoli tortuosi che portavano da una caverna all'altra senza dover uscire alla luce del giorno. Lasciava tracce di bivacco in posti impensati, alcuni ancora tiepidi, come se ci avesse visti arrivare. E spesso avevo l'impressione di due occhi sulla pelle, a seguire la mia andatura stanca e sfinita di calore.
Dovevamo fermarci a far bere i cavalli ed era la scusa buona anche per noi, per buttarci in acqua e toglierci di dosso polvere e sudore. Era acqua fresca e limpida, che giungeva dal buio e mi scivolava lungo il corpo in una carezza torbida d'intenti, ricca dell'eco dei desideri che lui vi scioglieva bevendo sorsate avide a piena bocca, mentre si nascondeva all'inseguimento tra le pareti di roccia che lo accoglievano nel loro ventre scuro, che solo lui violava e sempre abbandonava per fuggire ancora lontano. I getti freddi si abbattevano su di me ed io chiudevo gli occhi, per ascoltare le sue parole mormorate in solitudine, sognando di me, del mio corpo caldo, dei miei muscoli tesi e bollenti che lo cercavano per piantargli una pallottola in fronte.
Il mio vice non mi lasciava mai, perché diceva - una donna sceriffo è in primo luogo una donna. - Ma anche un vice ha bisogno di riposo, e quando gli dicevo - dormi un po', sto io di guardia - , non se lo faceva ripetere e si addormentava di colpo. Non potevo sapere se era il momento giusto, ma in ogni caso uscivo allo scoperto, gettavo i vestiti e gli stivali sopra un masso e m'immergevo nello specchio d'acqua. I cavalli scalpitavano sulla riva, cercavano ombra sbuffando tra i cespugli di ocotillo. Avanzavo guardando il mio riflesso nella trasparenza di cristallo e brividi di piacere si arrampicavano tra le cosce, sul ventre, sul seno, sulla gola, fino alle labbra che tremavano. Mi fermavo sotto lo scroscio -una lusinga sussurrata con monotonia- e, chiudendo gli occhi, aspettavo.
Quella volta ero alle cascate di Cajarè, acqua calda che passa sopra una parete d'erba amara in pieno sole, prima di lanciarsi con impeto nella coppa rocciosa e riempirla in un tuffo verde e inebriante come assenzio. Mi giunse il suo respiro, dapprima in sospiri che evaporavano nell'aria torrida, poi in ansiti affannati. Tra le mie ciglia socchiuse, i cavalli volsero la testa verso qualcosa alle mie spalle. Allora rimasi immobile. Furono le sue dita a percorrere la mia schiena come rivoli tiepidi, fin giù sulle natiche, perdendosi sott'acqua. Risalirono sui miei fianchi le sue mani, ruvide e affamate - serrandoli con forza mentre si accostava a me - rituffandosi in avanti, con carezze liquide tra le mie gambe, provocandomi una frenesia inarrestabile. Mi prese da dietro, come un animale, mordendomi la nuca, tenendomi ferma in un abbraccio senza scampo, gorgogliando parole convulse. Affidai al rumore dell'acqua il mio grido soffocato, affondando le unghie nelle sue braccia.
Poi lo sentii allontanarsi a poco a poco, come un sogno che svanisce appena avanza il giorno e le palpebre si sollevano in un arrivederci al sonno.
Aprii gli occhi. Sulla roccia luccicava la stella di sceriffo. Dietro di me, nessuno.
Giulia Lenci
Giulia Lenci