Nei suoi occhi erano rimasti i colori di quel viaggio, dell'ultimo suo viaggio. Erano il verde delle foreste tropicali, il rosso infuocato dei tramonti a Bombay, a Calcutta, che si specchiavano sul blu profondo dell'Oceano Indiano, erano il grigio degli elefanti, il bianco avorio dei templi consacrati ad Allah o a Visnù.
I suoi lunghi capelli rossi erano stati scossi dal vento impetuoso dell'equatore, e in quelle pupille celesti brillava ancora il mistero dell'India.
Vi avrebbe brillato per sempre.
La mia cara sorella Minta aveva voluto lasciarmi per una stagione d'oblio, al termine della quale ci ritrovammo dinanzi al camino acceso, e lei mi narrò abbracciandomi appassionatamente le sue avventure.
Era arrivata a bordo di una grande nave transatlantico, e dall'estremità della prua aveva ammirato di lontano la sua terra selvaggia, i capelli al vento, le belle mani giunte quasi per adorare una divinità pagana.
L'India l'aveva accolta per la prima volta tra le sue braccia all'ora del tramonto. E le aveva subito offerto i suoi piaceri infuocati, regalando ai suoi sguardi magnifiche visioni, di pescatori indiani che navigavano lungo la spiaggia a bordo delle loro imbarcazioni a vela, fatte di tronchi scavati, visioni di giovani dai torsi nudi, che facevano suonare come trombe delle enormi conchiglie marine, visioni di donne dai capelli racchiusi da turbanti, o di sciamani, che inginocchiati sulla spiaggia invocavano in lingue sconosciute chissà quali divinità, innanzi al sole che ormai si tuffava nell'oceano, negli ultimi istanti del crepuscolo.
La prima cosa che Minta aveva desiderato nel suo cuore era il Piacere. Ella desiderava Venere, era arrivata in India per incontrare Venere, ma in realtà lo era lei stessa.
Sì, e come quella dea aveva passeggiato sul lungomare di Bombay, avvolta soltanto in una specie di kimono dorato, che racchiudeva i suoi seni prosperosi, le sue gambe tornite, le sue braccia perfette come un mantello, che volava nella brezza tropicale.
E aveva corso a lungo, tra la folla, fra i turisti inglesi dai volti assorti, fino ad arrivare alla Grande Pagoda, che aveva esaudito i suoi sguardi.
Poi aveva chiuso gli occhi, e si era accorta di una mano, anzi, di dieci mani, che correvano lungo il suo corpo, che la sfioravano dovunque, di una lingua di velluto che si impossessava del suo sesso, e le regalava delle sensazioni magiche, di erotismo fatato.
Qualcosa la possedeva...
- Sì, ancora – ansimava Minta.
E una voce dal mistero le aveva sussurrato l'identità di quella Divinità terribile, che tanto aveva osato.
Oh, dimmi il tuo nome, che io possa consacrare ai tuoi piaceri la mia carne, e il mio corpo vano, dimmelo, poiché so che soltanto Venere può regalare tanto...
Questo aveva detto la giovane, ma la Dea beffarda era fuggita, dopo aver lanciato su di lei i suoi incantesimi indiani.
E Minta s'era ritrovata in una specie di savana arida, alberata, mentre si guardava intorno, giungevano a lei i versi melodiosi degli uccelli tropicali, che annunciavano l'aurora.
Erano forse fischi di merli, e mentre la bella si faceva strada fra l'erba alta, e il suo cuore batteva per la paura di incontrare le tigri, s'accorse di qualcosa che stava davanti a lei.
Era una specie di tempio, o di palazzo reale, integralmente rivestito da marmo bianco. Sulla facciata c'era una specie di gran porticato, a colonne doriche, sulle cui sommità avevano scolpito statue del dio Brahma.
Una gran scalinata conduceva al portone d'ingresso, difeso da due guardie armate di scimitarra.
Quell'immenso tempio era circondato da un vasto giardino, dove crescevano piante tropicali dai fiori grandissimi, edere rampicanti e palme, e forse, anche l'albero dei frutti proibiti, che Minta tanto avrebbe desiderato cogliere.
Il suono di un flauto di Pan rapì la fantasia della bella, anzi, la stregò.
Aveva visto una scimmia tra i cespugli, l'aveva udita sghignazzare e sghignazzare, per poi svanire.
S'era alzata una foschia grigia, che avvolgeva il castello, rotta soltanto dai primi raggi d'aurora.
Minta riaprì i suoi occhi: era sola sullo scalone, aveva appoggiato il suo meraviglioso e venusto braccio alla ringhiera, ma il sibilo d'un cobra l'aveva sorpresa.
E il serpente era a un passo dalla sua bella mano...
Un brivido di morte la travolse, la giovane rimase immobile, ormai certa del suo destino, quando un uomo dietro di lei le posò una mano sulla spalla, e parlò al serpente.
Questo divenne docile e affettuoso, per poi trasformarsi in un uccello, e involarsi nell'immenso cielo dell'India.
- Chi sei? – chiese Minta.
Si voltò, e il suo sguardo incontrò quello di un uomo che avrebbe potuto essere un - Marajah - . Portava un turbante nel quale era incastonato un rubino di indicibile valore, le sue vesti di seta e di lino purissimo, il suo mantello di porpora, dovevano essergli stati donati dagli dei in persona.
Minta baciò il grande anello che il nobile portava al mignolo.
Poi le parve di vederlo salire in sella ad un cavallo di pura razza, spronarlo con vigore e partire al galoppo verso il mistero.
Soltanto il vento le rispose...
S'appressò al portone del palazzo, e le guardie non le intimarono l'altolà, ma la lasciarono passare senza ferirla con le loro scimitarre.
Entrò.
Si ritrovò in un salone, al centro del quale stava una grande fontana, da cui sgorgava vino.
Poi passò in una stanza dove c'erano delle grandi vasche piene d'acqua e di vapori, e a destra e a manca si notavano delle magnifiche donne senza veli, dai capezzoli rosa e dalla pelle bianca, dalle lunghe gambe di seta, dalle braccia venuste, dalle unghie dipinte. Ansimavano e parevano gridare per il piacere.
Anche Minta avrebbe voluto godere come loro, rapita da una forza invisibile.
All'improvviso si aprì una porta sulla quale erano scolpite avventure di uomini e di elefanti, o episodi tratti dai Veddha indiani. Una voce dal mistero le disse:
- Sei entrata nella casa del Gran Sacerdote, hai violato il suo segreto, e non potrai più andartene...
Ella allora prese a correre, fino a quando non s'imbattè in un uomo... Sì, andò a sbattere contro di lui, i loro corpi si toccarono con violenza, i seni prosperosi di lei sbatterono contro il torace irsuto di lui.
Era un uomo dalla testa rasata, di razza indoeuropea, vestito con una specie di toga d'oro.
- Sei tu il Gran Sacerdote? – gli chiese Minta.
- Sì, e non potrai andartene di qui, senza la mia chiave. -
- Allora, dammela... -
Ella si accorse che le mani irsute di lui stavano percorrendo il suo corpo, i suoi seni ormai nudi, e avvolti solo in parte dalla seta, le sue forme sinuose.
- Sì, così – gli disse. – Fammi impazzire. -
Minta prese a baciarlo con le sue labbra scarlatte come la passione, a carezzarlo coi suoi lunghi capelli rossi, a cingere il suo corpo con le sue gambe nude, ad attrarlo verso il suo ventre.
Gli scoprì il torace, e prese a mordicchiargli il pelo un po' folto che lo ricopriva.
Il Gran Sacerdote non conosceva la carne da più di mille anni...
Prese a leccarle i capezzoli, poi l'ombelico, poi le dita del piede, e infine la vulva.
- Ahhh... così! – disse lei.
Si sdraiarono su un letto, sulla cui testiera stavano due leoni modellati nell'oro.
Il Gran Sacerdote la penetrò nell'ano, e lei gridò, poi il letto cominciò a cigolare, e il piacere li travolse.
Minta lo sentì venire nel suo intestino, più e più volte, sentì quello sperma bollire nel suo ventre, infuocato.
Fu il godimento più acuto della sua vita.
- Tu mi hai dato grande piacere, ed io ora ti ricompenserò – fece il Gran Sacerdote, alla fine. - Romperò l'incantesimo che ti lega a questo tempio, anche se ciò distruggerà il mio kharma... Prendi questa chiave ed entra in quella stanza, troverai un grande elefante bianco che ti riporterà a casa, e l'ira degli dei nulla potrà contro la sua forza. -
Fu così che Minta cavalcò il grande elefante bianco: gli salì in groppa e si rimise così in viaggio per i misteri dell'India.
E prima di tornare a casa, ne visitò i mille templi consacrati al Piacere, prima di ritornare, ne assaporò i profumi magici, ne ammirò le notti stellate, si bagnò nei suoi fiumi fatati, e la sua carne conobbe quella di molti giovani dai corpi erculei scolpiti dal sole dei tropici.
E in quei viaggi, mentre cavalcava l'elefante suo compagno e il dondolio dell'andatura la faceva cadere nel sogno, le sue dita esperte le permettevano sempre di volare nella felicità e di confondere la sua gioia a quella dell'immenso.
Mi narrò anche di quanta tristezza provò separandosi dal suo elefante, divenuto il suo amico del cuore: lo baciò con le sue labbra rosse e amorose sull'estremità della proboscide.
Dunklenacht