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Racconto n° 1249
Autore: Dunklenacht Altri racconti di Dunklenacht
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Bacio
Era la stagione del sogno.
Ricordo che potevo passare delle ore, dopo le lezioni, affacciato alla cara finestra preferita. Al di là di essa, i monti, innevati, il lago, gelato, pochi camini fumanti.
L'inverno.
A volte ci facevano passeggiare per i boschi. Era bello fare a girotondo, dopo la quotidiana sgridata della maestra, o sfidarsi a palle di neve. Poi, quella campanella antipatica, il cui suono, triste come il cielo grigio, poneva fine ai nostri giochi. La primavera tingeva la natura di smeraldo.
Allora, con indosso le nostre divise dorate e blu, correvamo sui prati ricoperti di fiori.
Amavo raccogliere quelle margherite, che poi regalavo alla mia maestra preferita, della quale ero segretamente innamorato.
Facevamo volare gli aquiloni, che con i loro colori vivaci riempivano il cielo. Che grida festose, che chiasso... Allorché si avvicinava la fine dell'anno scolastico, era sempre così.
Oh, stagione felice! Anno dopo anno, così passò la nostra prima giovinezza. Ricordo di una mia amica, che tanto amavo.
Aveva i capelli lunghi, a dir poco rossicci, con cui tanto mi piaceva giocare. Le ero antipatico quando, per scherzo, mi divertivo ad annodare e sciogliere quel fiocchetto grande e buffo, che la discip1ina imponeva a noi allievi. E giocavamo insieme.
Lo facevamo nel doposcuola, quando lo sguardo arrabbiato dei professori non poteva molestarci.
Lei aveva voluto che mi dimenticassi il suo nome, come se saperlo fosse stato infrangere l'incantesimo che ci univa.
E così, quando la chiamavo, mentre giocavamo insieme sul lago gelato, usavo un amichevole soprannome.
Ci divertiva andare insieme su quello slittino di legno. Lo immaginavamo tirato dalle renne, perché in quegli istanti, per noi, tutto si tingeva di fiaba.
Ricordo che lei aveva paura dei tuoni e della bufera, quando soffiava tanto forte.
Allora, tutta sola, veniva a rifugiarsi fra le mie braccia.
A volte, i maestri ci sgridavano... Che buffo era, quando, per fare il cavaliere, confessavo di essere io l'attore di una ragazzata di cui la mia amica era la sola colpevole!
Un giorno, eravamo tristi.
Ci avevano punito e lei aveva pianto. Per un attimo, ci eravamo allontanati dagli altri, che passeggiavano nel bosco: volevamo amoreggiare e consolarci! Seduto su di un tronco, accanto a lei, le stringevo forte quelle mani tanto fredde...
Era stata una cattiva a renderla infelice: la direttrice dal volto rugoso rugoso, arcigna, che per farci paura si divertiva a rompersi le bacchette di legno fra le mani. Brutta vecchia...
- Non voglio più ritornare a scuola! - dicevo, imbronciato. - Preferisco restare qui e morire di freddo. -
- Non fare così! - mi sgridò lei. - Esiste una felicità nascosta, che sopravvive al pianto. Niente può resistere alla forza dell'amicizia e dell'affetto... alla forza della gioia. -
E me lo diceva nel tono di una professoressa, malgrado avesse da poco raggiunto l'età della ragione. Ancora non sapevo cosa volesse dire: la vita non me l'aveva mai insegnato.
Oh, segreto felice, con cui scherzava la giovane donna!
Le sue labbra rosse si posarono lievemente sulle mie, per regalarmi un bacio. Ci abbracciammo, soli in mezzo al bosco.
Fu la sua ultima felicità.
Ricordo che un giorno piovoso, ella mi volse i begli occhi, pieni di lacrime. Le chiesi cosa fosse, ma non mi rispose.
Teneva le mani giunte, quasi mi pregasse di non parlarle.
E un segreto, o forse un presentimento, le morì sulle labbra... Il giorno dopo, appresi che non ci saremmo rivisti mai più.
Quando lo seppi, corsi, sotto la pioggia, sulla strada bagnata e fangosa, a gridare il suo nome ai venti. Invano!
Ella più non rispondeva alla mia voce. Forse, perché il suo cuore era lontano.
Non la ritrovarono mai più. S'era avventurata tutta sola nei boschi, ed aveva incontrato i fantasmi bianchi del silenzio, vestiti con lunghi manti, le cui voci malinconiche narravano il destino.
Era stata rapita dal mistero, ed aveva incontrato così la sua sorte, candida come la neve. L'uomo senza volto, padrone delle umane vite, aveva scritto col lapis, sul suo diario, le ultime parole di quella storia misteriosa. La storia della mia amica.
E le grida festose dei nostri scherzi si erano spente. Per sempre.
Mi ritornarono in mente le sue parole, la sua allegria.
Fu allora che compresi. Era stata lei la mia vera maestra. La sua lezione, semplice e felice, non l'avrei mai dimenticata, per tutta la vita.

"Turchina
È ancor la volta del cielo, ma gli ori
Delle nubi già volgono ai fulgori
Supremi.

Tu tremi
A quell'immagine nostra. Per quanto
Fu il pianto
Che in passato versammo, che versare
Dovremo ancora, or più ci siano care
Le gioie fuggitive e il nostro eterno
Affetto.

Diletto
Fu ad altri il giorno, a noi la mesta sera."

U. Saba, IX Fuga.

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