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Racconto n° 1276
Autore: Giulia Lenci Altri racconti di Giulia Lenci
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Signora
Arrivavano la domenica pomeriggio con l'auto di lusso e gli abiti eleganti.
Già dal mattino la nonna aveva dato aria alla stanza, spolverando e mettendo fiori sul cassettone.
- Perché i fiori? - chiedevo.
- Oh... è una signora. -
Poi sentivamo il vecchio Bobi abbaiare ed il fruscio delle ruote nell'aia.
La nonna diceva : - E' arrivato, lui e la sua puttana. -
- Con quel che paga, può anche portare i puttani. - diceva il nonno.
- Vai ad aprire alla signora, bambina. -
- Non sono una bambina. -
Correvo ad aprire la portiera e lei scendeva. Allungava quelle gambe bianche e magre come da noi non usava. Si aggiustava quel vestito lucido e leggero come da noi non se ne vedevano. Scostava con le mani quei capelli tutti a onde come da noi si sognavano soltanto. E mi sorrideva.
- Ciao, piccina. -
La odiavo.
Scendeva lui. Alto, bello, distinto. Non un uomo. L'uomo. Come doveva essere per me.
- Ehi. - mi diceva.
Diventavo rossa come un pomodoro.
Salivano a chiudersi nella camera preparata per loro. Ne uscivano verso sera, per andarsene, lasciando dietro di sé il profumo di cose belle che non avevo e non avrei mai avuto.
Quel giorno lei aveva un abito blu con piccoli pois bianchi, che le volava intorno alle gambe ad ogni passo.
- Oh... - disse - Che bei fiori. Sembrano di cera... -
- Se vuole, la bambina gliene fa un bel mazzo. - disse il nonno.
- Non sono una bambina. - sibilai.
L'uomo rise. - Hai ragione. E ti stai facendo molto carina. -
Avvampai e fuggii nell'orto. Guardai con odio quei fiori che vedevo da quand'ero nata e, se avessi avuto il tempo, li avrei distrutti subito, pur di non darli a lei. Ma non avevo tempo. Ci avevo pensato a lungo e sapevo cosa fare. Entrai nella stalla e poi, dalla porta interna, in cucina. Da lì salii veloce le scale e andai a rintanarmi come un topo su in solaio, dove le vecchie travi che facevano da soffitto alla stanza di sotto, erano allineate in modo non proprio perfetto, con aperture a portata d'occhio. La cascina era stata costruita dal nonno del nonno che, con le sue mani e l'aiuto di poche altre, aveva fatto ciò che poteva. D'altronde, a chi importava tanta imperfezione, se gli unici ad usare quella camera erano i due ospiti della domenica e gli unici ad approfittare degli spazi tra le travi erano i topi delle granaglie? Mi sdraiai sul legno scavato dai tarli. Sulla mia testa pendevano ciuffi di camomilla legati con lo spago. Attorno c'erano sacchi di pigne secche e di grano, e i topini, che mi spiavano tra un sacco e l'altro. Sotto, la porta si aprì. Risuonarono i tacchi di lei. Lui chiuse a chiave.
- Com'è bello, qui... - disse lei scostando le tendine di pizzo - Com'è romantico... -
Gli scuri serrati contro il sole filtravano il coro delle cicale.
- Questo posto è uno schifo, ma per te è anche troppo. - disse lui.
Ero felice delle sue parole. Certo non pensava quel che aveva detto, certo lo diceva per darle contro. Lei si girò verso di lui, il vestito ondeggiò, anche i capelli ondeggiarono lievi.
- Ti amo. - gli disse.
Lui si tolse la giacca e, con un gesto elegante, la lanciò sul letto.
- Quanto sei stupida. - mormorò.
Lei gli andò vicino, prendendogli il viso tra le mani.
Strinsi i pugni.
Lui l'allontanò con forza e si mise a girare per la stanza. - Non so se mi va, oggi. -
- Ti farò cambiare idea, vedrai... - sussurrò lei.
Vacca, pensai, grandissima vacca.
- Tu? - rise lui - Per quel che vali... -
- Oh, guarda... - disse lei, abbassando la cerniera del vestito, sfilandoselo in un movimento veloce e lanciandoglielo addosso.
Lui prese l'abito e tirò con le mani la stoffa fine. Sentii lo strappo secco e gl'indovinai un sorriso maligno.
- Come lo giustificherai, questo, eh? - disse.
- Oh, una scusa la troverò... -
- Tu, che non hai un'idea in testa. - ridacchiò lui, appoggiandosi al cassettone.
Lei si mosse e mille luci fiammeggiarono sulla sua pelle, esplodendo nella penombra.
- Ti piace? - domandò.
- Cosa? - chiese annoiato.
Lei si mise le dita sui fianchi, giocando con puntini brillanti, mentre bisbigliava: - Swarowsky... -
Le onde dei capelli le coprivano la schiena, una soffice cascata che terminava dove occhieggiavano i piccoli cristalli, come spruzzi iridescenti di quella caduta morbida che, oscillando ad ogni suo movimento, aumentava la sensazione d'uno scroscio liquido e così leggero da risultare silenzioso.
- Avrai speso un mucchio di soldi. - sorrise lui.
- L'ho comprato per te... -
- I suoi soldi. -
- Apposta per te... -
- E scommetto che lui non l'ha nemmeno visto. -
- Certo che no... -
- E non lo vedrà. - disse lui.
Poi, in un balzo delle braccia, fu sui suoi fianchi e subito distante, mentre una pioggia luminosa si scagliava intorno, rimbalzando sui muri e sul pavimento.
- Se mia moglie sciupasse così il mio denaro, sai cosa le farei? Sai cosa? - urlò.
Mi giunse il rumore dello schiaffo, che le girò la testa e la sbilanciò fino a farla cadere sul letto. Un volteggio di danza, un tuffo di grazia sulle braccia protese in alto, i capelli una raggiera intorno al capo.
L'ha fatto apposta, volevo gridare, l'ha fatto apposta!
Non staccavo lo sguardo dal suo corpo. Era bella. Aveva la pelle bianchissima e i seni grandi. Tutto in lei era morbido, anche le labbra, gonfie, che sorridevano un poco. E gli occhi, che lo fissavano con una luce di mille stelle.
- Sei solo una puttana. - disse lui.
Bravo, hai capito, bravo.
Si tolse la cinghia dai pantaloni. La vidi saettare per aria un secondo e abbattersi su di lei. Sotto il mio sguardo incredulo. Lei gemette piano e lui la picchiò ancora, sulle cosce, sul ventre, sul seno. Sembrò stancarsi e gettò a terra la cintura. Lei si guardò la pelle, ricoperta di linee rosee che si stavano accendendo, come righe tracciate in malo modo da un bambino svogliato sul foglio da disegno.
- Oh, come sei cattivo... - sussurrò.
- Non sono mica quel fesso di tuo marito. - disse rauco.
- Vieni... - sussurrò ancora lei.
- Non ci penso proprio, stupida. -
Si appoggiò alla porta e la fissò. - Non sei un granchè. Non so perché perdo il mio tempo... -
- Ti amo. - isse lei forte.
Lui rise. - E tuo marito, lo ami, lui? -
- No. -
- Dillo a voce alta. - gridò.
- Non lo amo non lo amo. - gridò anche lei.
- E' un vero imbecille. - urlò lui.
- E' un imbecille un imbecille. -
- Non sa fare niente. -
- Niente niente. E' un incapace. -
Qualcosa in lui stava cambiando. Lo scuoteva un'agitazione inattesa, ansimava, scorgevo il tremore della bocca e delle mani, mentre si tormentava l'allacciatura dei pantaloni, come fosse indeciso se slacciarli o no.
- Di' che lo disprezzi. -
- Lo disprezzo. Mi fa schifo. -
Allora lui slacciò con impazienza i pantaloni, scavalcandoli, abbandonandoli dov'erano. E tolse anche il resto, rimanendo nudo. Le fu addosso con una violenza che mi spaventò e per poco non urlai. La prese a schiaffi e, ad ogni suo lamento, ripeteva: - Schifosa, sei solo una schifosa. -
Poi si avventò su quel corpo candido quasi a volerlo sconquassare e distruggerne la bellezza. Quando si calmò, lei aveva due lacrime agli angoli degli occhi, che scivolarono sulle tempie. Lui si rialzò e, con respiri profondi, rimase lì, di fronte a lei.
- Non sei capace a niente. - disse - Non mi accontenti mai. -
- Ti amo... -
- Sei buona a nulla. Scommetto che quella racchietta saprebbe fare di meglio. -
- Oh... - sospirò lei.
- Hai visto, no? come mi guarda... Farebbe qualunque cosa, per me. -
Mi morsi una mano.
- E' cotta di me. Posso farne ciò che mi va. -
- Non essere crudele... - lo pregò.
- Faccio quello che mi pare, con le donne. Sarà mia quando voglio. -
- Non essere cattivo. E'così giovane... -
- E chi se la prende, una cornacchia simile? Finirà sposata a un contadino. -
Mi morsi l'altra mano.
- Hai visto che occhietti porcini, che ha? -
- Oh, smetti... -
- E che naso rincagnato. -
- Ma dài... -
- E il deretano da papera? -
- Insomma, smetti. Stai parlando di una ragazzina... -
- Cos'è? Solidarietà femminile? Ma quella, al massimo, può essere una gallina. -
Chiusi gli occhi. Un topo passeggiò sulla mia schiena.
- Ma le gambe, gliele hai viste, le gambe? Hanno dei peli, che manco una scimmia. -
- Ma come sei cattivo. -
- Come ti permetti, troia da quattro soldi? -
Ci fu una pausa. I topi presero coraggio, scorrazzando allegri. Riaprii gli occhi. Lei era seduta sul bordo del letto, lui le era davanti, il volto al soffitto, ad occhi chiusi. Una maschera di beatitudine. Dalla bocca gli uscivano rantoli e sospiri rochi sempre più affrettati. Con le mani si aggrappava ai suoi capelli, a quelle onde tranquille ora scompigliate in una tempesta tutta sua, tutta di quell'uomo gretto e cattivo. Poi emise un gemito rabbioso, scoprendo i denti in un ghigno diabolico. Lei gli baciò le gambe, inginocchiandosi ai suoi piedi. Lui le lasciò i capelli e chinò la testa su quel mare arruffato da una burrasca ormai conclusa.
- Sei in disordine. - disse - E sporca. Vatti a lavare. -
Lei si alzò, ravviando i capelli con le dita.
- Neanche questo sai fare come si deve. Mi chiedo a che serve sciupare così la domenica. - mormorò, volgendole la schiena e cominciando a rivestirsi.
Lei restava lì, a sussurrare parole dolci, che non volevo più sentire. Io, che avevo il cuore gonfio e i topi sulla gonna. Io, che avevo le lacrime sulla faccia e chicchi di grano appiccicati alle ginocchia. Io corsi giù dalla scala senza alcun riguardo. Scaraventai i miei piedi grossi nell'orto. Con le mani rozze raccolsi tutti tutti tutti quei fiori di cera che piacevano a lei. Mi strappai il nastro blu dai capelli dritti. Lo legai intorno agli steli. Aprii l'automobile e posai quel bel mazzo sul sedile accanto al guidatore. Dove sedeva lei. Dove c'era il suo profumo. Dove si sarebbe seduta ancora, ogni volta che lui gliel'avesse ordinato.
E corsi via, a piangere senza ritegno nella campagna.
Giulia Lenci

Giulia Lenci

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