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Racconto n° 1292
Autore: Dunklenacht Altri racconti di Dunklenacht
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I giorni delle tortore
Pioveva e faceva freddo.

I miei occhi ancora si bagnano di lacrime e di sogno, ripensando a quegli attimi ormai lontani e svaniti così, nel grigio di un giorno di ricordi. Eppure tutto era accaduto, così tristemente e dolcemente...

La città era addormentata tra le nebbie. Attraverso i vetri appannati della finestra m'accorsi che le prime luci dell'alba facevano risaltare come fantasmi i palazzi bigi della periferia, mentre un battello risaliva il Naviglio Grande, spargendo nell'aria il suo fumo bianco, che lentamente svaniva nel cielo.

Mi giunse di lontano il fischio di un treno in partenza, dalla vecchia stazione. E quel suono stridulo parlava di addii, di malinconie infinite, di silenzi pieni di lacrime...

Oh, parlava di questo, sì!

Lungo la strada passava un vecchio dalla barba bianca, che per camminare s'appoggiava al bastone, e mentre attraversava il ponticello di legno fece alzare in volo uno stormo di tortore... Fu come una nube, che lo avvolse, e parve rapirlo, prima di dissolversi con lui tra le brume.

Passava un tram, pieno di ragazzi che andavano a scuola, di donne, di illusioni...

Non sapevo se fossi sveglio, o se i miei occhi fossero rapiti da un sonno profondo e immenso. Forse, per tutto l'inverno, non avrei avuto altro che quel rumore triste, quello della pioggia che batteva sulle tegole. E un presentimento lugubre, che poi si avverò.

Oh, sì, è così, proprio così!

Abbassai le palpebre e distolsi lo sguardo dalla finestra, per rivolgerlo verso la vecchia stufa.

E vidi una consolazione malinconica...

Aveva dei lunghi capelli biondi, che le ricoprivano le spalle, e la bocca ricoperta di rossetto. I suoi dolci boccoli parevano fatti apposta per essere accarezzati. Anche le sue guance pallide e bianche lo erano. E quei grandi occhi celesti, che brillavano, pieni di sogni, erano stati disegnati per un bacio.

Eravamo soli io e lei...

- Sei triste? – le chiesi.

- No, non più – rispose.

Eppure, piangeva.

Aveva solo trentaquattro anni. Era la mia donna...

Le strinsi forte la manina bianca, dalle unghie dipinte di rosso. Aveva freddo.

La invitai a sedersi in braccio a me, così l'avrei riscaldata. Lei era talmente buona e amichevole, e non esitò a farlo. Mentre mi veniva tra le braccia, sentii i suoi morbidi capelli che mi sfioravano dolcemente le spalle.

- Saremo soli tutto il giorno – mi disse, sottovoce. – Forse, tutto il week-end.

Era da tanto che non ci vedevamo. Le dissi languidamente che era diventata ancora più bella, che era il mio angelo, che le volevo bene.

- Non lasciarmi! – mi diceva lei.

A poco a poco, m'accorsi che non era più triste.

Sarebbe partita, mi diceva, e forse per sempre. Probabilmente, quella sarebbe stata l'ultima volta in cui potevamo stare assieme.

- Non dire così... Non dire così, tu sei la stessa di allora. Ricordi? Dondolavamo insieme sul cavallino di legno... - le dissi.

E mentre le dicevo questo la guardavo negli occhi, che scintillavano; pareva una fanciulla, con quel cappellino nero in testa. Lei era pazza, mi narrava con voce triste la storia di quel fratellino che non avevo mai conosciuto, e che le fredde acque del fiume, un inverno, avevano voluto portare con sé. Dalla finestra di una delle case si affacciava una fanciulla bionda, ma soltanto per piangere e gridare... Un vecchio su una barca remava invano verso il gorgo...

E mentre la sentivo raccontare, le andavo carezzando i lunghi capelli, e le mie mani non si fermavano, era lei che desiderava non si fermassero.

Le avevo confidato di amarla pazzamente. E lei era la mia amica segreta.

Il mio sguardo correva lungo le sue curve... Aveva dei grandi seni turgidi, una gonna corta e stretta, che mostrava le belle gambe nude, un paio di tacchi a spillo rosa...

E già quelle labbra correvano lungo il mio membro, affannosamente, affannosamente, pareva baciassero, pareva baciassero!

Nel frattempo lei si toccava, con la bella mano bianca.

La saliva bagnava la mia asta, ogni tanto lei se lo toglieva dalla bocca, e guardandomi negli occhi, come per eccitarmi, gridava, accarezzandosi sempre: - ah... ahhha... ah... ahi...oh! Ahia... - Ripeté questo gesto più volte, più volte, più volte, facendomi morire.

Poi me lo baciava, con quelle labbra rosse e infuocate, e la sua lingua si impossessava di me, ricominciando quel gioco patetico. Non sarei uscito da lei senza essere venuto. Aveva accavallato le gambe, e nel frattempo potevo osservarla mentre si masturbava.

Con una mano le tenevo i capelli, come se fosse mia.

Alla fine lei si accorse che stavo venendo con malinconia e passione, mi sentì bollente sulla lingua, quella lingua rossa e infuocata, che non perdonava.

Socchiuse gli occhi.

Anch'io lo feci.

E pioveva sempre, sempre, sempre.

L'ultimo stormo di tortore già s'era alzato in volo.

I tetti delle case ancor dormivano come fantasmi nel silenzio del mattino. Tutto era triste, e avvolto nel sogno.

Avevo freddo. Avevo freddo.

E ancora oggi mi sembra di veder brillare quegli occhi, azzurri e innocenti...

Quegli occhi, che non avrei rivisto più.

Mai più.

Dunklenacht

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