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Racconto n° 1303
Autore: Dunklenacht Altri racconti di Dunklenacht
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Il bosco di Nanto
Il bosco di Nanto ci aveva sempre affascinato, sin da bambini. Ci andavamo sempre, io e lei, anche soltanto per una passeggiata, o per rincorrere le farfalle.
Giaceva ai piedi di un colle, in cima al quale sorgevano le rovine di un antico castello. Alcuni dicevano che nelle notti di plenilunio vi dimorassero i fantasmi. Altri, dalla fantasia più vivace, dicevano che il bosco di Nanto avesse conosciuto tutte le stagioni della vita, e le sapesse raccontare una per una, predicendo al viaggiatore le vicende del destino.
Io e la mia amica Lilliput ci recavamo sovente a far visita a quelle antiche querce, per lo più di nascosto a mamma e papà, che ci avevano proibito quei luoghi, dicendo che, se vi fossimo andati, avremmo incontrato le streghe. Oh, sì, le streghe crudeli, che ci avrebbero decapitato con la falce... Che paura!
Ma né io né la cara Lilliput credevamo alle cose assurde. Anzi, ci andavamo, e ridevamo. Lei soleva travestirsi da strega, con un gran cappello color carbone in testa, un mantello nero addosso, preso di nascosto dal guardaroba di sua madre, la bacchetta magica in mano.
D'autunno ci capitava spesso di raccogliere dei fiori simili ai girasoli, con dei lunghi petali gialli appuntiti, e li intrecciavamo, facendone ghirlande, che parevano ispirare chissà quali sortilegi. Poi ce le mettevamo sul capo, come corone.
Lilliput mi stregava.
Ci sedevamo presso il ruscello, ad ascoltare la voce tenebrose del vento, e, in quel mentre, lei mi raccontava delle storie, si trattava, per lo più, di fiabe d'amore appassionate...
A volte, però, mi capitava di avere paura, perché si diceva vi fossero le vipere.
Lilliput comunque ci sapeva fare, si metteva sempre il rossetto sulle labbra, quelle dolci labbra rosse con cui tanto spesso mi baciava e mi accarezzava...
Aveva la pelle bianca, così bianca... E su quelle guance così candide, a volte ricadevano i lunghi capelli rossi, che risaltavano come riccioli di fuoco.
Le capitava spesso di stringermi tra le braccia. Io ricambiavo quelle sue premure, e non mi negavo certo la felicità di dirle che la amavo.
Mi copriva di baci.
E le grandi querce rimanevano tacite spettatrici di quell'amore segreto. Entrambi avevamo da poco raggiunto l'età della ragione, entrambi sapevamo amare la felicità, e odiare la sofferenza.
Gli occhi di Lilliput erano azzurri.
Pareva fossero fatti apposta perché vi brillasse la poesia e il mistero del bosco di Nanto. A volte, io e lei ci incamminavamo fino al mulino, deserto ormai da tanti anni, e guardavamo quelle vecchie pale girare e girare, sospinte dalla corrente, ci pareva di riascoltare la voce del vecchio mugnaio, morto tanti anni prima di una misteriosa malattia.
- Hai freddo? – le chiedevo a volte.
- Sì, tanto.
Sapevo che quella risposta non corrispondeva a verità, Lilliput infatti diceva così soltanto perché voleva che la riscaldassi, prendendola tra le mie braccia.
E lo facevo, mentre una folata di vento improvviso faceva volare via il suo cappello da strega.
E parlavamo d'amore seduti sull'erba, era ormai la fine di Settembre, gli ultimi raggi del sole al tramonto illuminavano deboli il volto di perla di lei...
La bella si slacciava il corsetto, mi mostrava furtiva i suoi seni grandi, dai capezzoli rosa, e diceva che voleva che lo facessimo, che lo facessimo.
Io ricordavo appena qualche momento del mio passato. Soprattutto, era rimasto impresso dentro di me il ricordo della sessualità dei miei antenati.
A mezzanotte, mentre mi credevano addormentato, mi capitava di sentire delle grida dalla camera accanto, dove i due coniugi dormivano. In principio non sapevo cose fossero quei versi, poi, ne dedussi che i vicini di casa avevano l'abitudine di consumare a quell'ora i loro accoppiamenti sessuali, per non turbarmi.
Una volta, li avevo spiati. Entrambi erano nudi, la donna stava sotto, gridava di piacere e con una mano si masturbava, l'uomo stava sopra, l'aveva penetrata e la scopava freneticamente.
E narravo queste mie impressioni di un tempo alla mia amica Lilliput, che mi sorrideva, baciandomi...
- Tu lo sai quanto mi piaccia salutarti con la dolcezza dei miei baci – diceva Lilliput.
- Vuoi che giochiamo alle streghe, come sempre? Io comincio a correre, tu mi vieni dietro, e se riesci a prendermi, hai vinto. Giochiamo alla strega che acchiappa il bambino cattivo...
Erano sorrisi d'amore, i suoi.
Mentre le narravo dei rapporti sessuali dei nostri antenati, lei mi propose di fare sesso assieme. L'avevamo già fatto altre volte, ma senza passione.
Quella volta, forse, la passione ci sarebbe stata.
Avevamo udito in mille occasioni, nel bosco di Nanto, i fantasmi del rimorso assurdo, ci era sembrato di vedere le figure arcigne che abitavano l'Averno, o gli spettri dell'antico maniero, figure di donne nude incatenate, ma quelle ombre assurde si erano finalmente dileguate, nell'amore dolce e affettuoso che è all'origine della vita e affratella tutti gli uomini.
- Vieni qua – disse Lilliput, stringendomi con grande affetto. – Ti amo tanto...
L'amore ci permetteva di essere felici subito, di una felicità piena e gratuita, che non desiderava essere pagata con la sofferenza.
- Oh, sì, ti amo, ti amo, ti amo... - ripeteva lei, mentre le sue labbra rosse diventavano ancora più rosse, e mi regalava mille e mille baci.
Intorno a noi c'era il silenzio, e dal vicino ruscello si levavano le prime brume d'autunno. Giungeva fino a noi il rumore sordo e lontano della scure di un taglialegna.
Le accarezzavo le gambe, lunghe e nude, le braccia bianche, le mie dita s'attorcigliavano con quelle candide di lei, mentre le baciavo le unghie dipinte di rosso.
Sospirava, mentre, a poco a poco, entravo in lei con il mio membro.
Forse, le erano venute in mente le storie delle streghe medievali, quelle fattucchiere leggendarie che la fantasia del volgo voleva mutuassero i propri poteri magici dai demoni, dopo aver consumato con loro rapporti sessuali infuocati.
- Sì, fallo così... Ahi, più forte... - diceva.
Alla fine, venni dentro di lei, con grande felicità.
Ci prendemmo per mano e ci incamminammo così giù per il sentiero, ciascuno verso la sua casa, dove i nostri genitori, ormai vecchi, ci aspettavano per la cena.
Eravamo vicino al villaggio dei cacciatori, dalle grandi case di pietra con il tetto spiovente.
- Ti amo, Lilliput, e morirei senza di te – le dissi, ma lei scherzava, e improvvisamente mi sfuggì, quasi desiderosa di giocare a rimpiattino con me.
Eravamo soli sul colle dietro la Quercia Maestra, fu là, infatti, che la ritrovai dopo quella piccola fuga, e mentre una lacrima di malinconia le bagnava la guancia di perla, e i suoi capelli di fuoco volavano nel vento, nell'ultimo raggio di sole del giorno, mi disse, mentre sfiorava con un bacio i petali di una rosa selvatica:
- E' quello che vorrei fare con te per sempre.

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