Erano le ultime lacrime di un fiore di donna.
Chiusa nella sua casupola di legno e mattoni, nel gran bosco di magnolie, aspettava l'ultimo affetto. Il grande camino fumava, fuori, cadeva il nevischio.
Le stelle fredde dell'inverno erano salite su nel cielo, pieno di silenzio e di mistero.
La giovane donna stava al pianoforte, le mani sue correvano lievi sui tasti neri e d'avorio, i suoi capelli lunghi e biondi le ricadevano come un mantello sulle spalle.
In un angolo giaceva, come morta, un'arpa, le avevano tagliato le corde... Le pareti erano quasi tutte tappezzate di carta stellata: era stata lei a desiderarlo, sì.
Nel focolare ardeva un fuoco solitario, unica luce della stanza. Il chiarore vago delle fiamme illuminava così quel volto disegnato per i baci d'amore, ma soltanto per mostrare le ultime lacrime dell'angelo cui apparteneva.
Una ad una, ricadevano sui tasti bianchi del pianoforte, ed era come se il mago del mistero, con la sua bacchetta magica, le trasformasse in perle azzurre di tristezza, prima di lasciarle cadere al suol.
Non so se il destino fosse mai giunto a consolarla. Forse, qualcuno, forse, un fantasma, o forse, nessuno!
La bella cadde addormentata. Sì, per poi risvegliarsi in un abbraccio! Rialzò il viso e mostrandomi la bella bocca rossa, disse sussurrando:
- Sono qui per regalarti i miei ultimi baci e le mie lacrime!
Allora, s'alzò dal piano, prese una rosa scarlatta dal bouquet di fiori che ornava il tavolino d'ebano, e posò le labbra sue su quei petali di velluto.
Sapeva suonare anche l'arpa, conosceva l'arte profumata dell'ikebana; spense il fuoco, e volle mostrarmi il volto suo alla luce del chiaro di luna, facendolo sorgere lievemente da dietro un ventaglio di fiori orientali, fulgido quanto un sole nascente.
Fu l'ultima apparizione.
I capelli suoi erano divenuti come raggi di sole, che s'irradiavano brillando dal suo volto dorato.
Mi disse che doveva narrarmi una storia, una storia, e che le prime luci dell'aurora l'avrebbero dissolta, come l'ultima traccia di neve, prigioniera della primavera.
Si sedette sulle mie ginocchia, lasciandosi carezzare, e le sue labbra rosse e tremanti presero così a raccontare.
Mi sussurrava che c'era una volta un'averla, dal canto triste e un po' lugubre.
Andava volando sempre sulle torri della città, si posava sugli alberi, quando erano tutti spogli, in inverno, o quando apparivano gioiosi, in primavera.
Ma nessuno mai aveva udito il suo canto, sapete?
Oh, no, nessuno, che poi avesse vissuto abbastanza per raccontarlo. E c'era come una maledizione triste, in quell'uccello, che non aveva colpa, oh, no, non aveva colpa, se il male lo accompagnava, insieme alla disgrazia.
E si posava sulle alte torri della cattedrale gotica, sulle guglie nere, sui davanzali delle finestre chiuse, a cercare invano delle briciole di pane.
Si posava sulle tombe... Oh, al villaggio, l'ultima volta che c'era stato un seppellimento, tutti si erano detti che il defunto, prima di andarsene, aveva udito il canto dell'uccello triste.
Un giorno l'averla si posò su un tiglio che cresceva nel giardino di una promessa sposa... E cantò, sì, cantò, sconsolatamente... La bella si commosse, ma poi, pochi giorni dopo, si addormentò per l'ultima volta, tra le braccia del suo amato.
L'averla cantò per un orfano... Si lasciò accarezzare, regalandogli il suo canto dolce e triste, oh! Non trascorse molto tempo, prima che il fanciullo andasse Lassù a riabbracciare chi lo aveva lasciato.
L'averla cantò per una vecchia... Sembrava che il povero animaletto pietoso piangesse, per il destino che era venuto ad annunziare. Una settimana dopo, la campana suonava a morto.
Oh, povera, tenera averla, figlia della tristezza! Anche tu, un giorno, te ne andasti!
Ma l'ultimo tuo canto fu dedicato alla felicità!
La bella, dopo che ebbe smesso di narrare, desiderò ancora quell'abbraccio di fuoco. Si carezzava le gambe velate da calze nere, oh, erano quelle di una statua, che soltanto gli scultori dell'antica Atene avrebbero potuto creare. Le mani sue bianche correvano, fuggivano, tremando.
Quella notte, la sentirono piangere e godere.
E lo fece dopo aver sognato.
Oh, sì, la bella pianse e godette, sotto le sue magiche stelle, pareva come morta, mentre la sua mano cercava la mia mano, e il suo seno si alzava e si abbassava affannosamente, ornato di un vago ricordo di Chopin!
Avrei voluto ricoprirla di perle.
Ma quei baci sussurravano al niente, né bastavano ad asciugare quelle lacrime fredde, fatte per sbocciare come primule un giorno, e poi morire d'inverno.
Non la rividi mai più. Oh, il fuoco di quelle labbra!
Dunklenacht