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Racconto n° 1338
Autore: Dunklenacht Altri racconti di Dunklenacht
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La pendola dorata aveva da poco suonato la mezzanotte. Era un vecchio orologio, integralmente in oro zecchino, incastonato nel legno, dov'erano scolpite ed illustrate, con piccole miniature, le più belle scene del Faust di Goethe.

Le lancette erano decorate con zaffiri.

Da un capo all'altro del castello si era sparso quel misterioso suono di perla, che annunziava l'ora delle stelle e del destino.

Era un maniero un po' deserto e solitario, dove la leggenda diceva abitassero i fantasmi della passione. L'avevano costruito sulla scogliera, a picco sul mare, e le onde sempre tempestose, dalla spuma bianca, a volte pareva desiderassero inghiottirlo, e portarlo con sé nel più profondo del blu.

C'era anche una grande torre diroccata, dove non andavamo mai.

Dicevano che vi aveva abitato il boia di Lilla, che tagliava la testa alle fanciulle innamorate della città, e bruciava le streghe. Io non sapevo nulla di queste storie.

Scesi la scalinata bianca, illuminata da ceri ardenti. Le pareti erano affrescate da artisti sconosciuti, che imitavano Michelangelo, o illustravano paesaggi magici, abitati da pecore bianche, maghi che volavano su prati verdi, donne nude, dai seni enormi e bianchi, con in mano la spada della giustizia, o raffiguravano i biondi capelli di altre femmine fatate.

Giunsi così nella sala dell'organo.

Era uno strumento antico, costruito da maestri del tardo Medioevo, e poi rivisitato nell'Ottocento. Mille e mille canne argentee si alzavano dalla terra verso il cielo, era decorato con angeli scolpiti nel marmo, che suonavano la tromba, e con figure vaghe di amanti, che languivano abbracciati. Parte di esso era in legno, artisti del passato avevano voluto dipingerlo come fosse carta stellata.

Vi era anche una sorta di statua greca, che raffigurava forse Calliope ignuda, con indosso soltanto un velo color smeraldo, e con una tromba tra le labbra: da lì usciva, come per incanto, il suono più potente dell'organo.

A destra e a manca, le pareti erano rivestite di cristallo. A tratti, secondo il ritmo della melodia, si apriva una sorta di scatola magica, ed uscivano figure fantastiche, di draghi, o di elefanti, o di cavalieri erranti, che pareva recitassero non so quale passo del Parsifal, oppure si azionava una piccola ruota di campanelli, un glockenspiel, il cui suono faceva sognare.

La misteriosa suonatrice era femmina, aveva dei lunghi capelli che le ricoprivano il dorso bianco, lasciato scoperto da un abito nero e attillato. Era quasi completamente nuda, nudi erano i seni greci, nude le braccia d'alabastro, tatuate con una farfalla, nude le mani dalle dita lunghe, e dalle unghie scarlatte, nude le gambe lunghe e sode, nudi i piedi perfetti, che si muovevano veloci sui pedali di legno.

Aveva indosso soltanto quell'abito, ornato di pizzo nero, e sul capo, un cappello d'egual colore, agghindato con una piuma d'airone.

Con lei avevo condiviso i sogni e i giochi della mia infanzia, con lei condividevo la felicità di abitare quel segreto maniero, e di bruciare di passione.

Le posi una mano sulla spalla bianca. Smise di suonare. Me la strinse forte, con affetto, oh, cara compagna amorosa!

- Dicono che quest'organo sia appartenuto a Bach – mi sussurrò, baciandomi sulla bocca, come faceva sovente, per augurarmi la buona notte.

- Non so... Io so soltanto a chi appartengono queste dolci forme, e queste curve flessuose – le risposi, sussurrando.

- Ma senti che mano fredda! – disse la suonatrice. – Vieni qui, ti scalderò io, con qualcuna delle mie carezze di fuoco!

E cominciò così il nostro consueto gioco, fatto di baci, di abbracci, di strette di mano affettuose, di carezze su tutto il corpo. Lo praticavamo da sempre, sin da quando qualcosa di appassionato era sbocciato in noi.

Mi chiedeva se avessi ancora freddo.

E come avrei potuto averne, fra quelle braccia, o toccato da quelle dolci labbra, che lasciavano il segno del rossetto?

Mi chiese se avessi paura dei fantasmi. No, non ne avevo... Volle che la prendessi in braccio e che salissimo così la grande scala di legno del castello, che portava nelle camere. Lo feci. Dormivamo sempre abbracciati... Mi diceva:

- Oh, amico caro, lo sai che non riesco a prendere sonno, e a sognare dolcezze, se non sei accanto a me!

Amavo giocare con i suoi capelli.

Lo facevo sempre, mentre scherzavamo assieme sulle rocce intorno al castello. Lo facemmo anche il mattino dopo.

Lei giocava a fare la sacerdotessa. Non so cosa volesse dire, ma credo che la religione sua fosse la sessualità.

Persino in quel mattino s'era infilata quella specie di abito rituale, ricamato con filo d'oro, e la gorgiera bianca, che tanto le donava sul seno nudo. Era una sorta di pezzo di antiquariato. Sui suoi grandi seni sobbalzava un pendolo rotondo, d'argento, con incise non so quali parole latine.

Quello che indossava la mia bella era, in realtà, un vecchio abito di carnevale.

Diceva che voleva essere la sacerdotessa del vento.

E compimmo insieme il consueto rito magico, su di uno scoglio rossastro, a picco sul mare, sì, eravamo seminudi, avvinti l'uno all'altra, le sue gambe erano attorcigliate al mio corpo virile, mi carezzava coi suoi piedi dolci, e dalle labbra rosse lasciava sfuggire le sue grida di piacere, che morivano nei muggiti dei flutti.

A tratti, ci arrivava la spuma bianca, sulla pelle.

Era una carezza fredda, che amavamo molto.

Lo facevamo così, senza che nessuno ci vedesse.

A volte, mi capitava di incontrare la mia compagna sulla scalinata della torre, con in mano un vecchio libricino, scritto in gotico. Leggeva e rileggeva misteriose frasi latine, andando su e giù per le scale, senza sosta, a volte, fino al calar del crepuscolo.

Diceva che era il suo breviario.

Io non so che cosa sussurrasse allora, so soltanto che era vestita con due calze a rete nere, velate, le scarpe in vernice celeste, col tacco a spillo, un abitino a pieghe, un mantello in velluto nero sulle spalle, e improvvisava passi di danza, per le scale.

Non si era mai inciampata.

Le piaceva spogliarsi nuda, scendere fino al mare, e lasciarsi toccare dalla schiuma bianca dei flutti.

Diceva che era per un amore perduto.

Io la vedevo dalla finestra del castello, mentre le onde tempestose la bagnavano, e lei si toccava il ventre piatto, i seni grandi e perfetti, le gambe lunghissime e dolci, e un gabbiano le si posava sulle spalle.

La mano sua sfiorava la sua femminilità nuda, il suo pube, il suo monte di Venere.

Ricordo come un giorno ci masturbavamo insieme, seduti presso il vecchio organo, appartenuto a Bach. L'avevo fatta sedere sulle mie ginocchia, le labbra sue non cessavano di baciarmi, sospirando, avrebbe voluto regalarmi mille segreti d'amore.

Mi abbracciava, mi dava delle dolci e affettuose pacche sulla spalla, mentre riscoprivamo quell'antico mistero di piacere.

La masturbazione reciproca era un rito sacro, mi confidò la sacerdotessa.

Quando avemmo finito, lei prese la sua sfera di cristallo e vi lesse il futuro.

Aveva parlato ai falchi e ai gabbiani, disse. Conosceva gli oracoli. Aveva sentito con la mano di fuoco il destino, ardere nelle viscere degli uccelli, dolce e appassionato, come il presagio.

- Ti prego, prendi in braccio di nuovo la tua amichetta, accarezzala così, sì, come prima – mi disse.

E ricominciai così a toccarla. Mentre la facevo bruciare di quel vecchio fuoco di piacere, mi chiese:

- Vuoi sognare un incantesimo?

- Dove e quando? – le chiesi.

- La prima notte di plenilunio. Vedrai, sarà un incantesimo di fuoco.

- E' un invito?

- E' un dolce bacio sulle labbra, come questo che ti do ora...

E me lo diceva sospirando, travolta dalla tenerezza dell'orgasmo.

E venne poi il giorno dell'incantesimo.

La bella sacerdotessa venne a svegliarmi di soprassalto, al calar del tramonto. Ancor dormivo nei miei sogni, e non sapevo che mi sarei addormentato in un altro, più profondo.

Nel castello vi erano mille camere.

E tra le tante, una ce n'era, dove non ero stato mai. Soltanto la sacerdotessa possedeva la chiave. E la bella, per l'occasione, indossava il suo abito più magico: un mantello nero ricamato d'oro e argento, ornato con croci alemanne. Appesa a una bandoliera di pelle teneva una spada, con l'elsa tempestata di diamanti.

Sulla bella testa bionda aveva un cappello a cono, con un velo turchino attaccato sulla punta, le labbra sua erano rosse come il fuoco.

Ciò che mi colpì fu il fatto che era completamente nuda, sotto il mantello. Portava soltanto una gonna nera, attillata. E il seno suo era adorno di una sorta di collana religiosa, composta da tanti cerchi d'oro puro.

Aveva i tacchi a spillo, e una catenina dorata le agghindava la caviglia. Ad essa teneva appeso un piccolo ciondolo, una luna d'argento.

Diede fuoco alle tende.

Sapeva che le fiamme avrebbero divorato solo quelle.

Nel mezzo della stanza c'era un letto a baldacchino: là i due amanti avrebbero consumato il fuoco del piacere.

Prese la mia mano e se la portò sul seno, poi, cominciò a mordicchiarmi le spalle nude, con i suoi denti d'avorio. Mi morsicò, e ne uscì del sangue.

Dopo che mi ebbe spogliato la penetrai, sincerandomi così che portava indosso soltanto il suo mantello, la catenina e la collana.

Il cappello l'aveva perduto, nella lotta di passione.

Mi dovette sentire con piacere, mentre il mio fallo entrava in lei, e le squarciava il grembo, cominciando un gioco lento e inesorabile. I suoi seni sobbalzavano, eccitati e sferzati dalla grande collana con cerchi d'oro, che le danzava sulla pelle. Era per un rito religioso, diceva la sacerdotessa.

Mi stringeva forte la mano, e gridava...

Aveva voluto mettersi sopra, voleva che la trapassassi come una spada, e così accadeva. Nessuno poteva sentirci.

Alla fine, dopo che tutti i suoi ceri di passione furono accesi, la misteriosa sacerdotessa di sentì inondare da un fiume di fuoco... Era stato per un incantesimo.

Dunklenacht

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