Passi di lì, ogni giorno e non è un caso, lo sai. Sfiori sempre il bugnato del palazzo: di fianco al portone c'è la targa: Nicola Cammarsini, Architetto.
Finché un giorno, davanti al bar che fa angolo, sotto il portico lo hai visto. Come succede con le canzoni, quando ti torna il ritornello, ma non afferri bene l'intero brano, così ci hai messo qualche secondo a realizzare che era lui.
Bello come allora, il giorno era uscito dalla tua vita dopo l'esame di maturità, quando con un sospiro di sollievo, guardasti i quadri dove c'era scritta la tua condanna alla libertà. Non avresti più rincorso parole che ti rigavano la pelle o sguardi che lasciavano impronte sulla tua anima.
Lui bello, con attorno ragazze magre, vestite Naj oleari, mentre i ragazzi in Monclear uguali al suo, scodinzolavano ad ogni schioccar di dita. E tu eri il rospo, così ti chiamava, ogni volta che lo cercavi, muovendoti nei tuoi maglioni troppo larghi.
Ora è qui davanti a te. E, forse, faticherà a riconoscerti quando lo saluterai.
O forse no.
Magari ti fisserà sorridendo, come sempre, con metà della bocca. Ti guarderà dall'alto, facendoti sentire ancora più piccola del tuo metro e sessanta.
Davanti a un vino allungato con acqua minerale, che si compiacerà di chiamare con un nome esotico, facendo schioccare la lingua, ti butterà sul naso la sua carriera con tanto di conoscenze paraculanti, mentre tu, notando i suoi congiuntivi bislacchi, abbasserai lo sguardo dicendogli del tuo lavoro precario.
E intanto, finché gli parli, non staccherà lo sguardo dalle due ragazze dalle lunghe gambe, appollaiate sugli sgabelli. Scambia occhiate d'intesa con una bionda che, come la sorellastra di Cenerentola, vedi ammiccare alla tua gonnellina comprata al mercato.
Reincontri così la tua amica del cuore, quell'invidia che provavi per le tue compagne più galle. Più esperte, delle quali origliavi i discorsi, o ne spiavi i diari eccitandoti.
Mentre lui con gli altri ragazzi, faceva gesti di scongiuro quando passavi. Ma tu lo cercavi, godendo di quel pizzicore che dava alla tua pelle il suo disprezzo.
E poi ti chiederà, così, buttandola lì, di salire al suo studio. Così lo seguirai, zitta zitta, due passi dietro di lui. E ti sentirai come allora, quando chiuderà a doppia mandata la porta alle spalle e sarai prigioniera di quella stanza in disordine, una cosa fra le tante: il tecnigrafo, progetti accartocciati a terra, un piccolo divano rosso dal design minimal.
Si siede sulla scrivania, con le mani in tasca, lasciando penzolare i piedi e ti guarda senza dire una parola, cincischiando con il tuo imbarazzo. Indovinerà la tua eccitazione, come la ha sempre sentita, anche quando avevi quindici anni. Percepiva quel fantasma che tu evocavi apposta per spaventarti.
- A uomini come va? -
Mentre tu non sai cosa dire. Lo vuoi, e lo fissi tra le gambe per vedere la sua eccitazione. E senti il tuo clitoride che si gonfia, che vuole essere toccato.
Non riesci a trattenerti, stringi le cosce.
Ora si avvicina, camminando attorno a te, descrivendo piccoli cerchi concentrici sul pavimento. Ti lasci sfilare la canottiera, poi da dietro, ti sgancia il reggiseno. Arrossisci sapendo che vede i tuoi capezzoli eretti e che capisce quanto lo desideri, come sapeva, anche allora.
- Le tue tette sono rimaste uguali - dice soppesandole, e fa affiorare un ricordo umiliante, di una gita scolastica, dove, non sai ancora come, era entrato di soppiatto nel bagno e, ridendo, aveva aperto la tenda, mentre facevi la doccia. Quello stesso ricordo molle, di carta vetrata, che hai cullato a lungo nelle tue notti sudate.
Ti sgancia la gonna leggera a pois blu e la butta come uno straccio a terra. Eppure tu, anche adesso lo vuoi così: volgare, violento.
Poi, prende un paio di forbici e taglia l'elastico dei tuoi slip facendoti sentire sulla pelle il freddo del metallo.
Ti senti ridicola.
Nuda, con addosso solo un paio di scarpe da tennis verde acqua. Rimani immobile, e non riesci a controllare il tuo respiro, il piacere esce dalle tue labbra socchiuse con un sibilo sordo.
E ti tremano le gambe, mentre stai ritta, in mezzo alla stanza in penombra, di fronte alla parete bianca. Il tempo sembra non passare mai.
E lui che continua a girare intorno, a spirale, annusandoti.
Vorresti solo che ti scopasse, subito. Vorresti il suo membro che estrae dai pantaloni, senza prendersi la briga di spogliarsi.
Ti solleva sulla scrivania.
Solo pochi colpi, netti così, e ti inonda subito lasciandoti ancora una volta umiliata, priva di piacere.
Soddisfatta la sua vanità, si butta sul piccolo divano nell'angolo. E allora sei tu che ti avvicini. Il tuo clitoride, sollecitato, è gonfio ed eretto, come un piccolo cazzo. Prendi il suo membro fra le mani, e lo stimoli per farlo ingrossare. E poi piano, lentamente strofini il clitoride sul suo glande, avanti e indietro, scegliendo il ritmo che più ti piace. Finché ti riprendi la tua parte di piacere.
E quando ti volti, sentendoti chiamare per cognome, lungo la strada, da quel ragazzo, ritto sotto il portico, con la sigaretta fra le dita. Fa sempre uno strano effetto sentirsi chiamare per cognome.
E...
- ti ricordi di me? -
- Forse, mi pare -
- Che fai di bello, dopo tanto tempo? -
- E Tu? -
- E potremmo rivederci -
- Si magari -
Il cellulare ora squilla, mentre te ne stai stesa sul divano della tua casa, guardi il display e lo spegni.
Per adesso.
Alisa Mittler