Amavo sedermi in riva ad un azzurro e gorgogliante ruscello, con il mio uomo al mio fianco. Era l'affascinante e sconosciuto stalliere, di cui già vi ho parlato. I nostri occhi quasi si smarrivano, in quegli istanti, contemplando l'immenso.
La voce lontana e un po' fantastica di una cascata bastava a farci sognare l'affetto. Io ero innamorata di lui, e, forse, anche egli lo era di me.
Mi stringeva forte la mano, e giocavamo a gettare allegramente i sassi in quelle acque fatate. Amavamo vederli rimbalzare.
Ero sempre io quella che cercava le sue labbra, e le meravigliose tenerezze di cui egli era capace. Sapeva accarezzarmi, quando lo voleva. Io amavo la folle sensazione che mi davano le sue guance ricoperte di un velo di barba, sulla pelle.
Gli raccontavo del Madagascar, e della passione che da sempre regnava in quei luoghi tropicali. Io stessa l'avevo sperimentata. Avevo amato, e continuavo ad amare.
Egli mi guardava con due occhi stralunati, assenti. Pareva non mi ascoltasse. Però, desiderava toccarmi. Lo faceva spesso, mi trattava come se fossi stata sua da sempre, e avesse un piano segreto da realizzare con me.
Inventavo delle storie leggendarie e fantasiose, gli narravo dei pirati del Madagascar, dei loro velieri veloci, fatti per salpare alla volta delle Indie, o dell'Arabia, erano pirati che ammaestravano le scimmie, una di loro era donna, sì, segretamente donna, e sapeva maneggiare la sciabola e baciare.
Gli raccontavo anche del mio amico pappagallo, che io avevo voluto chiamare Cocorito, aveva i colori meravigliosi dell'Africa, e sapeva parlare. Gli avevo persino insegnato a corteggiare una donna.
Il mio amante mi ascoltava sempre assorto, mentre, parlandogli amichevolmente, e sussurrandogli tenerezze, camminavo con lui in riva al lago, o davanti ai meravigliosi giochi d'acqua che avevo fatto costruire davanti al maniero. C'era una Venere scolpita nel granito, e dieci piccoli Cupido le danzavano intorno, ad un tratto, lei faceva un inchino, e si posava le dita sulle labbra, come per regalare un bacio. Il meccanismo era azionato da un getto d'acqua.
Una volta chiesi al mio caro garzone se mi amasse.
Rispose di sì. Bastava.
Era cacciatore. Non aveva mai voluto dirmi quale fosse il suo vero nome. Ora vi dirò, quasi in gran segreto, che io mi permettevo di chiamarlo René. Era così che l'avevo sempre chiamato.
Ricordo come mi stringeva forte la mano, e, impetuosamente, mi trascinava quasi a forza nel bosco, con il fucile sottobraccio. Gli animali lanciavano mille versi di terrore, e fuggivano spaventati, poi, ad un tratto, quel suono sordo, e un po' crudele, un grido, una vittima: era quella vecchia bocca di fuoco, che aveva sparato.
La mia immaginazione romantica mi induceva a dipingermi René come un eroe, un cacciatore, signore del bosco, che amava tanto la sua bella.
Una volta, correvo trafelata, mano nella mano con lui, lungo un sentiero ripido... Il mio amante teneva il fucile carico in pugno, c'erano molti ramoscelli tagliati da poco da qualche boscaiolo, lui inciampò improvvisamente, cadde, partì un colpo...
Non accadde nulla di grave, per fortuna, ma dalle mie rosse labbra di donna uscì un grido di spavento, e una nube di fumo grigio, sprigionata dallo sparo, ci avvolse.
Che paura!
Ma io facevo sempre la corte al mio cacciatore, e non gli lesinavo i baci e le carezze, anche quando andavamo a far l'amore alla vecchia segheria abbandonata, che avevano costruito il secolo scorso, sul di un'isola nata in mezzo al fiume. Ci si poteva arrivare soltanto in barca. Era un edificio un po' decrepito, dove nessuno più si recava da tempo.
Dicevano che era diventato un covo di falsari. Ma erano leggende... Io e il mio René ci andavamo per le pernici.
Vi confesso che provavo un po' di pena nel vederlo catturare e uccidere dei poveri animali. Mi sembrava quasi senza cuore. E quando insieme contemplavamo il vecchio forziere di famiglia, la sera, pieno d'oro, gioielli, pietre preziose e monete d'argento, mi accorgevo di come lui non dimostrasse grandi attenzioni per me, mentre tuffava avidamente la mano in quelle ricchezze.
Diceva che era soltanto un gesto scherzoso, ma amava rigirarsi tra le mani i miei preziosi - bijoux - , cosa che il mio affetto certamente non gli negava.
E quando mi chiamava, diceva sempre:
- Signora...
Sì, ero la signora del suo cuore. L'avevo sedotto. E lo corteggiavo, lo corteggiavo, lo corteggiavo, senza stancarmi mai.
Ricordo che una volta eravamo soli nel bosco, dalle parti del rovere antico, sulla corteccia del quale avevamo inciso i nostri nomi. Ad un tratto, ecco apparire il cinghiale, l'Orco, che correva verso di me, per sbranarmi.
Gettai un grido.
E il mio amante imbracciò il fucile, e con un sol colpo, salvò la sua bella, che allora gli corse incontro, lo strinse forte tra le sue braccia, e gli donò un ardente bacio sulla bocca, mentre l'eroe ancor teneva l'arma fumante con la mano prediletta.
Rammento con quanto coraggio aveva sparato, e la vampata di fuoco che era uscita dalle canne del fucile.
Era sempre premuroso, pieno di attenzioni verso la sua donna timida e vogliosa. Mi carezzava i piedi, le gambe, con le sue belle mani tozze, che sapevano torturare e vezzeggiare.
Mi chiedeva di farlo nei luoghi più impensati, spesso, succedeva nel bosco, lontano dagli sguardi indiscreti. Di solito, però, ero io a provocarlo.
- Signora, per favore, non faccia così, non mi tenti... - mi diceva, in quei momenti.
Sapete, io amavo tirarmi su maliziosamente la gonna, con una civetteria tutta femminile, e gli mostravo così le belle cosce, velate da calze a rete, che andavo accarezzando con la mano bianca, fatta per l'amore.
- Signora, io amo queste cose, lei lo sa... - sussurrava lui.
- Su, René, dammi del tu – gli rispondevo allora. – E' proprio così difficile?
A volte, capitava che quasi mi saltasse addosso. Era violento, passionale. Succedeva spesso anche nella scuderia, davanti ai miei bei cavalli bianchi, che diventavano così spettatori inconsapevoli dei nostri rapporti sessuali.
Amava le mie labbra lungo la sua virilità, amava scorrere dolcemente nella mia bocca, fino a rendersi consapevole dello spasimo della mia lingua infuocata, delle mie tonsille roventi, e della mia saliva, dolce come il miele.
Quando veniva, gridava sempre.
Era un lamento selvaggio, il suo, che mi faceva ritornare indietro nel tempo, e riconduceva i miei pensieri ai versi magici e cupi che vagavano come una melodia attraverso le giungle del Madagascar.
Lo volevo dentro di me.
Non mi stancavo mai di sentirlo ardere di passione nel mio grembo di donna.
Il fuoco suo si mescolava al mio, i suoi muscoli erano così tesi e forti, negli istanti più ardenti, che... oh! Mi scuoteva, mi teneva stretta, non mi dava pace.
Ma se gli chiedevo di lasciarmi, lui mi ascoltava sempre, perché io ero la sua - signora - .
E negli attimi più indescrivibili, quando entrambi toccavamo un piacere che nessuno può descrivere, le mie labbra cercavano le sue, e gli sussurravo - ti amo - . Nessun uomo prima di lui mi aveva mai fatta godere tanto.
Dunklenacht