Quando Sandra è agli attrezzi, non la devo disturbare. A volte capita che, per un intoppo qualsiasi, la sua lezione salti all'ora dopo. In questo caso, mi rassegno ad aspettarla giù da basso, dove un cortiletto si apre tra le palme e grossi cactus a forma di bitorzoli allungati. Mi siedo e leggo, incurante del viavai di donne dal fisico asciutto e sodo, coi borsoni colorati in cui so cosa c'è. Quello che c'è nel borsone rosso di Sandra: asciugamani, crema viso, crema corpo, spazzola, pettine e il profumino ultimo grido. Il resto lo offre la palestra. Dalle finestre escono ondate di vetiver, bergamotto, fior d'arancio, zenzero e altro che non conosco, insieme alle note allegre di musiche in sottofondo. Rimango in silenzio, girando piano piano le pagine del giornale, in rispettoso ossequio di tanta sofferenza ben celata. So che Sandra è là che sbuffa, suda, si flette e si contrae, solleva pesi e tira elastici, nella sua sfida alla forza di gravità e al tempo che inesorabile avanza. Lei mi assicura che ne vale la pena, quando la sera si specchia nuda fissando critica i muscoli scolpiti dello stomaco, della pancia, delle braccia, delle gambe, torcendosi a controllare i glutei. Sorridendo soddisfatta. La pelle lucida di non so che olio. Mi guarda severa, ospite indesiderato del suo campo visivo, e capisco che non è serata. Nemmeno quella. Il nostro, ormai, è un amore contemplativo. Ma guai a dirglielo. Risponde scorbutica: - Tu, piuttosto... - e via ad elencare la mia pancetta, i bicipiti flosci, i pettorali poco convincenti...
Se usciamo, si veste attillata, mettendo in mostra il risultato della sua fatica, cercando l'invidia negli occhi delle donne e l'ammirazione in quelli degli uomini. Una sera le ho passato le dita tra i capelli, chiedendole: - Cosa vedi nel mio sguardo? - Mi ha scrutato e per un attimo ho sperato che vedesse il desiderio che avevo di lei in quel momento. Ha detto: - Le borse sotto gli occhi e le zampe di gallina. Perché non ti fai un lifting? - Era seria.
Quel giorno, mentre leggevo le pagine sportive, un picchiettio dapprima discreto e poi insistente mi ha costretto a riparare all'interno, nell'entrata con le poltroncine rosa pesca e un grande vaso di ortensie accanto alla finestra. C'era troppo movimento, per i miei gusti, perciò sono tornato fuori, riparandomi come potevo dall'improvviso acquazzone.
- Oh, poverino... - ha garrito una voce alle mie spalle.
Era Pina, la donna delle pulizie, una sempliciotta tutta sorrisi che avevo intravisto qualche volta, notando il suo culone.
- Ma prego, prego, non stia a prendere acqua... -
Mi ha fatto entrare in un corridoio al pianterreno, un posto fresco e in penombra, dove lei lustra le vecchie mattonelle e la ringhiera di ferro battuto che scende alle cantine in due brevi rampe intervallate da un pianerottolo - un deposito per le ramazze, lo spazzettone e gli strofinacci -. Sono entrato con il giornale ripiegato sotto il braccio, intimidito e allo stesso tempo eccitato, senza saperne il motivo.
- Se non le spiace chiudo, che non mi entri la pioggia... -
Aveva un sorriso largo e grasso quanto il doppio mento, e gli occhi vispi affogati nello spessore della pelle sudata.
- E' solo un temporale... - ha detto andando a prendere qualcosa.
Ne ho approfittato per osservare bene il sederone spostarsi pesante sotto il tessuto fine dello scamiciato azzurro. Mi sembrava di patire il mal di mare. Ondeggiava tutto, quell'ammasso che lei si trascinava appresso con agilità, dando un'impressione di leggerezza invitante. Deve aver sentito la mia occhiata insolente. Ha girato un po' la testa, la guancia rotonda nel lampo malizioso della risata.
- Sono un po' diversa dalle signore di sopra, eh? -
Ho riso appena, ma con sincerità.
- Eh, sì... ne avrei bisogno... -
- Di che? - ho chiesto.
- Di dimagrire... -
- No. Lei va benissimo così. - ho detto.
Chissà cosa c'era nella mia voce o cosa lei ci ha sentito. Sorrideva con un'espressione grata. E in quell'istante è passata tra noi un'elettricità inattesa. Forse era solo il tuono esploso senza preavviso, facendo tremare i muri e strappando un grido da quella gola morbida. Ho lasciato cadere il giornale, andandole incontro nell'ombra del pianerottolo che rimbombava.
- Mi fa tanto paura, il tuono... - ha sussurrato accostandosi a me con le braccia soffici nella loro adiposità. Le mie dita si sono avviluppate intorno alla polpa che cedeva e resisteva al tempo stesso nel movimento dei miei polpastrelli. Era meravigliosa.
- Splendido... - ho bisbigliato - E' come... -
- Come impastare, vero? -
Ho annuito. Ammaliato. Ancora il tuono sconquassava il cielo e lei si appoggiava a me, con il seno enorme. Pastoso. Ho chinato il capo, senza timore, fissandolo goloso. Lei respirava adagio, sollevando e abbassando la curva gongolante delle sue tettone.
Aveva un buon profumo. Non so quale. O forse era il detergente usato per pulire. Un aroma lieve di lindore. Rassicurante.
Con le mani grassocce ha sbottonato la stoffa azzurra. Gliel'ho sfilata dalle spalle rotonde e piene, con delicatezza.
- A che ti serve un reggiseno? - ho detto invitandola a slacciarlo.
- Beh... - ha iniziato lei.
Ho scosso la testa. - A niente. Devi lasciarle libere, queste meraviglie. -
Le ha liberate, grandi, immense, mastodontiche. I miei palmi non potevano certo contenerle. Così si aggiravano al di sotto, al di sopra e all'intorno, instancabili e compiaciuti. Si è schernita al mio accenno alle mutandine di pizzo bianco, che le amplificavano ogni ampiezza. Però le ha tolte, coprendosi con le mani in un gesto di pudore commovente.
- Sei stupenda... - ho sussurrato.
- Oh...no... - ha detto arrossendo.
Ho cominciato a palpare l'offerta generosa di quel corpo enorme, burroso. Ha chiuso gli occhi, abbandonando la testa indietro, con le onde dei capelli che ricadevano sulla schiena. E respirava tra labbra turgide, mentre l'abbracciavo e affondavo il viso in quel seno e quasi affogavo. Anche lei mi abbracciava e le sue cosce - grandi, tanto grandi - mi avvinghiavano come ad inghiottirmi tutto intero. Mi ha aiutato a spogliarmi. E poi. Poi ricordo che non smettevo di affondare, scivolando nella cavità senza fine dei miei desideri, accogliente, calda. Ci dibattevamo inconsapevoli del limite tra i nostri corpi, che parevano fagocitarsi a vicenda. Interminabile. Infine, è finito, ma non come era sempre finito per me. Non c'era bisogno di dirlo. Lo sapevamo. L'abbiamo saputo mentre, rivestendoci, sorridevamo.
Lo sappiamo ogni volta che Sandra entra in palestra col suo passo sciolto. Io guardo il cielo. Lei apre la porta al piano terra, strofinando la ringhiera di ferro battuto con mosse languide. E, piegando il giornale sotto il braccio, adagio vado verso di lei, florida, disponibile. Appagante.
Giulia Lenci
Giulia Lenci