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Racconto n° 1407
Autore: Diagoras Altri racconti di Diagoras
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La campana di Salakòs
Erano anni che non venivo fin quassù.

La piccola chiesa di Salakòs è posta in cima ad una roccia, quasi uno sperone che si affaccia nel vuoto, dominando il mare da un'altezza incredibile.
Esposta ai venti e abbarbicata in quella posizione, è quasi una sfida fatta dall'uomo alla natura.

Circondata da olivi secolari, ci si arriva per uno stretto
viottolo che parte dal paese sottostante. Paese di non più di quindici case, di agricoltori e pescatori, di poche anime che vivono in un tempo indefinito.
E questa chiesetta bianca e bassa, con la sua campana, è la custode di questa immobilità che sembra eterna.

Faccio gli ultimi passi in salita e finalmente arrivo.
E' come la ricordavo. L'avranno sicuramente ripulita, ma è esattamente come allora.
Una piccola costruzione, minuscola e senza pretese.
Spingo la porta di legno ed entro nella penombra.
Antichi odori di legno e di incenso, l'altare semplice e austero, il crocefisso che lo domina, le poche panche per i pochi fedeli che fin qui arrivano.
Alcuni quadri con immagini sacre alle pareti.
Nient'altro.

La luce che entra dalla porta rimasta aperta sembra quasi violentare quel luogo, quasi che l'oscurità reclami rispetto.
Accosto la porta ed ora la luce è tenue. Entra solo da quelle due finestrelle istoriate poste ai lati dell'altare. Ma è una luce discreta, rarefatta, mistica.
Il silenzio, invece, è assordante, come solo il vero silenzio sa esserlo.
Trasuda dalle mura, e mi avvolge e mi imbarazza.

Non sono un gran credente, tantomeno un praticante.
Credo, forse. O credo solo a volte, come tanti di noi, quando abbiamo bisogno di credere nel trascendente.
Quando, di fronte ai problemi della vita, ci rendiamo conto di quanto siamo poca cosa, e di quanto inadeguati si sia.
E' un modo di credere di comodo il mio, lo so.
Spesso la natura umana è vigliacca.
Ed io non faccio eccezione. Anzi.
E ora, in questa chiesa, mi sento a disagio, intimorito
e confuso.

Mi siedo su una panca e lo scricchiolio del legno rimbomba, rimbalzando da una parete all'altra, come un'eco senza fine.

Getto un'occhiata al meccanismo elettrico che tra poco farà andare la campana.
Suonerà, come ogni giorno, per due minuti esatti.
Così era allora e così è adesso.
Nulla sembra cambiato. Ma ora tutto è diverso.

Venivamo a Salakòs in bicicletta, dal nostro villaggio appena oltre il promontorio.
Pedalavamo nel caldo estivo, ridendo e scherzando, le poche auto che ci suonavano salutandoci quando ci superavano.
E poi la salita fino al paese, il sudore che scorreva a fiumi, il respiro affannoso, la fontanella a quella curva, e poi le biciclette abbandonate lungo il muro di quella casa, le nostre mani intrecciate mentre correvamo su per la stradina, cercando i tratti in ombra per un attimo di fresco, fino a qui, fino alla campana di Salakòs.

Ci affacciavamo abbracciati sullo strapiombo, il vento che ci scuoteva, il mare scintillante così lontano, il cielo blu così vicino.
E poi un bacio, una carezza, il desiderio che esplodeva, quel desiderio che avevamo faticato a tenere a bada nell'ultima mezz'ora.
Gli occhi scintillanti, i sensi accesi, i cuori in tumulto.

Andavamo dietro la chiesetta, tra gli olivi, in quel punto in cui i cespugli di oleandri e di alloro ci proteggevano da occhi inesistenti.
Perchè eravamo sempre soli.
E su quel letto di foglie facevamo l'amore.

Ricordo come, in ginocchio, ti sfilavi la maglietta e mi offrivi i tuoi seni, i capezzoli già spasmodicamente eretti, la tua pelle imperlata di sudore, le tue mani che guidavano la mia testa.
Li percorrevo con la lingua incessantemente, mordendo delicatamente quei piccoli chiodi invitanti, assaporando il tuo profumo di gioventù.
E il rumore delle foglie percosse dal vento era ben presto coperto dai tuoi sospiri, dalle tue parole affannate, dai gemiti di piacere che la mia bocca ti strappava.
Cercavamo di far durare a lungo quei momenti, per non perderci nemmeno un istante di quegli attimi sospesi nel tempo.
E poi, quando il desiderio ci travolgeva, eravamo nudi in un secondo, la tua bocca che cercava il mio sesso e
le tue labbra...

Erano sempre sorprendentemente fresche, in quel caldo ed afoso giaciglio.
Erano sempre umide, in quei pomeriggi riarsi.
Ed erano sempre audaci ma delicate, impertinenti ma anche timide: con la lingua lo leccavi e con la bocca lo succhiavi, alternando dolcezza a frenesia, malizia ad esperienza.
Mi facevi volare in un vortice di sensazioni che mai più ho provato, portandomi continuamente al limite e non facendomelo abilmente mai superare.
Mi volevi dentro di te, e mi volevi sentir venire mentre ti prendevo.

Ricordo quel pomeriggio di tanti anni fa che ti penetravo, tu sotto di me, la tua testa che ondeggiava da una parte all'altra, la catenina d'oro che brillava sulla tua pelle accaldata, il ciondolo tra i seni, le tue mani che mi spingevano sempre più in te.
E la campana che prese a suonare.
Ai primi rintocchi ci immobilizzammo, sorpresi.
Ti guardavo negli occhi e tu guardavi me, bloccati come in un fotogramma. E i tuoi muscoli che si contraevano attorno al mio pene, quasi a volerlo nascondere, a volerlo celare da chi forse ci aveva scoperto, da chi aveva infranto la solitudine di quel posto.
Ma si sentiva solo il vento che agitava la natura.
Paralizzati, cercavamo e temevamo voci umane che spezzassero definitivamente quell'incanto.
Ma non c'era nessuno. La campana di Salakòs sembrava battesse solo per noi.
E poi le risate. Riprendemmo a fare l'amore ridendo e, forse, venimmo anche ridendo, il mio pene che sussultava in te, la tua intimità che mi solleticava.
E sempre ridendo ci baciammo, in un viluppo di lingue e in un dolce cozzare di candidi denti.

E' quasi l'ora.
La campana di Salakòs ora lancerà il suo suono argentino.
Prima di uscire dalla chiesetta getto un'ultima occhiata intorno a me.

Ricordo quella volta che, dopo l'amore, entrammo in cerca di un pò di frescura.
E, seduti su quella panca, ti dissi che, non appena avessi avuto un lavoro, ti avrei sposata.
E tu che mi rispondesti, sorridente, che ci potevamo sposare anche subito. Eravamo in una chiesa del resto, no?

Ci alzammo e ci mettemmo in piedi di fronte all'altare, in una
vera chiesa e davanti ad un pope immaginario.
Alle nostre spalle gli invitati erano fantasmi che a noi sembravano
reali. E la maglietta stropicciata che indossavi era diventata un abito bianco ed elegante, il tuo abito da sposa.
Ci sposammo da soli, giurandoci amore per l'eternità.

Mi avvio al limite dello spiazzo davanti la chiesa ed osservo
l'immenso panorama.
Ed ecco che la campana inizia a battere i suoi rintocchi.
Se il suono si potesse vedere lo si vedrebbe adesso scendere verso il mare, abbracciare le onde lontane, posarsi su quello scoglio solitario, ammantare gli olivi e risalire delicato il pendio della collina retrostante.
Lo si vedrebbe riempire l'aria e salire in cielo, fino a sfiorare
quella nuvola bianca che mi ricorda il tuo abito da sposa immaginario.

Quel finto matrimonio l'ho sempre portato nel cuore.
Anche quando ce ne andammo dall'isola dove eravamo nati.
Anche quando le nostre strade si divisero, portandoci lontano uno dall'altra. Verso altre vite, verso altre persone, verso altri amori.
Ma la campana di Salakòs, che ora ha smesso di suonare, è sempre qui, colonna sonora di quell'amore perduto.

Guardo la chiesetta un'ultima volta e mi infilo gli occhiali da sole, perchè il riflesso della luce mi fa lacrimare gli occhi. Perchè alla mia età non si dovrebbe piangere.
A volte bisogna saper mentire a se stessi.
Illudersi per un momento, solo per un momento, che gli occhi lacrimino per il riverbero del sole.
E non è cosa facile.

C'è troppa luce qui. Decisamente.
A Salakòs, non tornerò più.


Diagoras

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