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Racconto n° 1461
Autore: Dan.nata Altri racconti di Dan.nata
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Lei è la mia Amica
Lei è la mia Amica.
Quella che da sempre (sempre? Certo fin dove arrivano i miei ricordi!) ha accompagnato la mia vita. Insieme abbiamo giocato alla scoperta della vita.
Lei sempre più vivace, più forte, più ambiziosa, più decisa, più scaltra.
Io sempre timida, riflessiva, ammirata. Un po' succube.
Insieme abbiamo scoperto di avere un corpo, di poterlo usare per rilassarci, comunicare, giocare.

Solo con lei so dire dei miei turbamenti. Solo con lei ho esternato cosa le mie dita hanno scoperto in quei solchi. Solo con lei le immagini che si formano nella mia mente, durante le escursioni notturne o solitarie delle mie mani sul mio corpo sbocciato, hanno preso una forma.
Eppure... eppure, quando la forma fu quel suo corpo, più tondo del mio, di un'armonia già più donna, di spigolosità più ardite, la sentii allontanarsi, timorosa e ritrosa, la sentii indurire la voce in quella risposta soffiata con evasiva noncuranza - Accade anche a me, ma lo uso soltanto per cercare il piacere, io non sono lesbica! - .
Solo, da quel momento, ama fermarsi a dormire da me con maggiore frequenza.
E allora aspetto il suo respiro regolare, finto anche male, per farle sentire a cosa mi induce il mio piacere, quello che lei cerca da troppo tempo con una smania che la divora.
Mi volta le spalle. Mi volta sempre le spalle.
Protetta dietro quel sonno che non arriva, lascia che le mie mani la cerchino, che nel simulare il mio sonno mi avvinghi alla sua pelle, che la mia bocca si appoggi lieve sotto il suo orecchio e una goccia di saliva le coli sul collo, che la mia coscia accavalli le sue aprendo nella mia peluria un calore che spingo con ritmo lento sulla sua natica fino a quando il piacere mi monta, mi freme.
Allora scordo ogni rispetto per il suo - non essere lesbica - , spingo più forte, spalanco le cosce sulla sua e la stringo e non ho più il pudore di nascondere alla sua pelle i miei umori, attraverso il lieve slip. Arrabbiata voglio bagnarla di me, che smetta di fingere, le mani sui suoi seni aperte che non osano, non osano, ma la rabbia si spinge a desiderare di stringere, stringere fino a farle male, i capezzoli da serrare in morse di dita dolenti...
E mentre spalanco le labbra nell'ultimo spasimo di questo piacere, le lecco la nuca... e ora, finito, appoggio la fronte alla sua schiena, a cercare conferma del suo interrotto respiro, sospesa nel vuoto di una negazione che temo non potere mai più, mai più, contrastare.
Mi lascia in quel vuoto solo fragili istanti, poi scrolla le spalle, mi allontana con fastidio, si scioglie da quel vincolo negato.
Perché allora ogni mattina le mie lacrime sono asciugate? Perché ogni mattina la mia mano si sveglia fra le sue?
Ma mai una conferma. Perché è peggio, peggio di un no, è la negazione di quel suo negare, negare, nel vuoto di un sonno, confermato ad ogni risveglio.

Trascorrono gli anni. Altro abbiamo vissuto.
Lei le sue storie, di uomini, con cui ha saputo giocare, come faceva con me, fino a lui, che ha accolto più forte, che ha sposato, per gioie di figli, di amici, di allegrie, di noie serene.
Io le mie storie. Di uomini, donne, mai più così intense, ricerche forzate, volute, perdute, trovata la pace dei sensi in un dolce tepore nella forza di lui, che ho sposato, per gioie di figli, di amici, di allegrie, di noie serene.
Ma tu dove sei Amica mia? Quel gioco sottile di male e di bene? Di amore? Hai potuto scordare? Quel vuoto di oggi, puoi riempire nel tuo quotidiano?
Ancora vicine, senza mai più quell'intreccio di anime, come di allora, hai potuto di nuovo trovare?
Hai potuto scordare?

Allora questa vacanza, i figli ormai adolescenti, che mi chiedi in quel mare sardo, quel mare che ci vide ragazze sofferte per una volta soltanto, prima di lasciarci alle spalle i giochi immaturi, che significa ora?
È quasi un segreto, che tutti sanno. Questa è la nostra vacanza, questo sarà il nostro ritrovarsi. Sanno i nostri uomini, senza sospetto, sanno che c'è bisogno ora di questo.
Sanno i figli, che si eclissano, usandoci come pretesto.
Che sia. Non importa. Cogliamo il lusso di delegare.

I giorni scorrono lenti, senza più noia, risate di fanciulle in severi cervelli che per ora hanno abolito ogni censura.
Le mani, le nostre, sono calde di sole quando ricercano un'abbraccio nell'acqua, ed i tuoi seni puntano ai miei con un'apertura diversa, più franca, arrossiscono i miei allo stupore di non volere riconoscere la speranza di allora risorta.
I baci di buonanotte, quando ci lasciano sole al chiacchierio delle stelle, si fanno sempre più accanto all'angolo della mia bocca, lasciandomi in dono quella piccola stilla di dolce saliva, che asciughi con l'indice carezzandomi il labbro. E mai te ne vai. Aggiungi parole, ad altre parole, per ripetere quel rito ancora e di nuovo, lasciandomi il tempo di riconoscere il desiderio di allora, di accettare di non arrossire domani nell'abbraccio ridente accogliendo il turgore dei tuoi capezzoli puntati in un respiro affannoso sui miei.
E le notti scorrono lente, senza più noia, spiando ogni affanno di là della sottile parete, fatta per proteggere solo lievi pensieri di abbandono, carezzando il mio uomo a cui maliziosa sussurro il menzognero desiderio per il suo corpo, ma da cui attingo piacere nel sospetto di una complicità mai negata dagli anni comuni.

E viene oggi.
I ragazzi che chiedono un giorno per nuovi amici conosciuti al villaggio.
E i nostri compagni che dedicano, a tornei organizzati da allegri ragazzi pagati, l'intera lunga giornata.
Nella ritrovata vicinanza siamo felici della libertà di essere insieme da sole.
L'ingresso alle grotte di un mare blu mai posseduto dagli occhi, ci coglie in un abbraccio, si poco innocente, sottinteso da sguardi sospetti di sbigottiti sconosciuti.
La permanenza nel soffuso chiarore colgono le tue mani in carezze, sempre per caso, ma ormai troppo spesso. Sempre per caso le mie sfiorano furtive capezzoli troppo reattivi, ti premono nudo l'addome stringendo un abbraccio in promesse da mantenere in un buio di grotte più umide e buie, protette da sguardi.
All'uscita accecante nel sole, si sciolgono labbra su labbra, appena sfiorate, nel rosa di un manto di mare che si perde nel viola fondale che ci fa domandare come sia possibile confonder col verde.
Che fa volgere sguardi, curiosi o furiosi, di bigotti sconosciuti, che non sanno dell'allegria ritrovata nelle giovani anime dentro di noi, nell'antico gioco dello scandalizzare.
E viene la sera, la cena, le parole sussurrate e chiuse nel cerchio delle nostre mani, che scoraggiano sorrisi melliflui di attempati, e più giovani, corteggiatori.
E la notte, senza ansie, scansiamo gli sdrai che sembrano attenderci al di fuori dalla villetta, evitiamo le stelle della notte sarda delusa dall'assenza delle nostre parole, entriamo nel caldo appena soffocante delle stanze vuote e, senza parole, sappiamo che sceglieremo il letto nuziale, il mio, per questa notte. La nostra.
Ma non ci basta. Troppe cose sospese, da troppo, fra noi. Attendiamo abbracciate. Come allora. Come ci pare da sempre. Tu di spalle, io avvinta alla tua pelle.
E li sentiamo arrivare, scarpe in mano i ragazzi, soffocati in risa leggere di convinzioni di averci giocate, di soppianto i compagni avvolti nell'imbarazzato sorriso di una colpa pretesa dalla notte ormai fonda. Li sentiamo affacciarsi, e richiudere l'uscio, nel sussurro beato di chi si sa amato, complici, loro, di tenerezze credute infantili, complici, noi, questa volta insieme, di un sonno non vero, che trasforma in respiri ritmati sospiri disordinati del corpo già ardente, fremiti impazienti di mai sopite attese.
Silenzio. Attesa. Che i respiri, degli ignoti abitanti di questa notte, si quietino.
Riempio l'attesa di un abbraccio più stretto. Il tuo respiro non muta. Le mie mani, a cui impongo di tacere quella carezza, ti scostano i capelli, e la tua pelle più bianca attira le mie labbra a sfiorarti. Trovano solo la tua immobilità.
Ti afferrò alle spalle. Ti giro. No amica mia, non ancora.
Perché, perché, perché, ti chiedono i miei occhi che ti hanno trovata negli occhi?
Sospesa è l'attesa. Silenzio di fuori, nella tua risposta, ascolto nell'assurdo silenzio di muscoli e pelle.
E' assurdo quello che ora so leggervi dentro. Assurdo quel volere negare nel tempo quello che ora appare evidente.
La rabbia. Si esprime in un urlo che non posso concedermi.
E che prende ora vie di un gioco crudele.
Tu taci. Nel gioco ora sai che devi abbassare la guardia, concedere, perdere. Questo tu vuoi. Farmi trovare il coraggio di costringerti al tuo piacere, dare a me, ora, la responsabilità di esso.
- Ne sei pronta ora? - domandano come una supplica le ciglia abbassate.
Sai che troppo hai tirato le corde dei miei sensi più oscuri.
Non penso. Afferro il tuo polso. Ti trascino nel bagno. Lontano da risvegli imprevisti. Mi segui docile. Mi spoglio e ti spoglio, bambola senza volontà. Mi siedo al bidé, lavo il mio sesso, lo percorre dal monte due dita, più giù fino alle labbra bagnate dalla voglia di te, che faccio sparire di dentro. E ti guardo guardare un punto freddo di ceramiche bianche.
- Guardami - ti impongo - guardami nelle mille volte che l'ho fatto pensando al tuo sesso, guardami nel riflesso di te, nelle mille volte che non hai osato cercarmi nel fondo della tua stessa femminilità, sconosciuta sorella - .
Mi cercano ora gli occhi orgogliosi, perdendo la via sui seni affannati.
- Asciuga la mia voglia che ti è sconosciuta - ordino secca, cercando il coraggio mancato da troppo, trovando l'ira covata negli anni, grata all'odio che hai imposto del tempo perduto.
Sei china, come un sogno, il bianco del panno fra dita che scorrono rosse, a privare di acqua quel fiorente ruscello che nasce.
Ti sfilo le dita più tenere, senza pretesa di resistenza, senza tenerezza, pestata a terra col panno odoroso di dolci succhi. Lo raccogli tremando, ma non è più il momento. Lo strappo dalle tue mani per asciugarti gocce fra labbra e narici. Socchiudi gli occhi.
Lo gusti? Disprezzi? Li voglio aperti. Voglio leggerli sempre.
Sollevo il tuo mento. Sollevo una gamba. Afferro la nuca. Capelli strappati fra dita. Non posso lasciarti. Le dita su muscoli tesi del collo.
- Tira fuori la lingua - comando con voce roca e le unghie affondate alla spiaggia tenera degli ultimi capelli sul collo.
Volevi questo amica crudele? Risarcirmi di anni affogati in oblii con la tua umiliazione?
Non oso chiamarti stronza. Non oso chiamarti puttana.
Ma lacrime dagli iridi aperti sulla mia tenera voglia, rendono dolce la mia cattiveria.
Lacrime dalle tue labbra rendono cattivo il piacere che affiora sulla tua lingua, che trova ogni via per la fonte.
Come se, da sempre, te ne fossi abbeverata.
Come se, di nuovo, bevessi alle acque del mio piacere che ora riverso, a lunghi convulsi, nella tua gola.
Le gambe molli, ti guardo e, non posso, non posso vedere il tuo viso bagnato. Abbassi gli occhi e sai. Sai che non questo volevo. Non questo.
E ti giro, il seno alla fredda ceramica, le mani mie ora strumenti per provocare un dolore che duole dentro di me, ma non può attendere.
Mani che stringono tenere carni, che percuotono morbidi sensi, che penetrano fragili incertezze... ancora per poco, ancora fino all'abbandono che mi offri senza pudore, senza più paure, senza più dolci ipocrisie, in un unico sospiro che si fa urlo, che sgorga dai sogni miei, dalle nostre fantasie finalmente reali.
Che affonda le mie mani nel tuo essere donna. La mia.
Ti raccolgo nelle mani umide, ti raccolgo in quel bacio, fra lingue discinte, ti porto a quel caldo abbraccio del letto, dove la notte sarà ancora nostra, dove sappiamo che siamo nate, ora, nel futuro.
Perché, finalmente, è domani.
Troveremo la passione, domani.
Troveremo la dolcezza, domani.
Troveremo la quiete domani.
In noi.


Dan.nata

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