LA ROSA DI CRETA
I giardini di Piazza Omonia sono diventati la mia seconda casa.
Quando il tempo lo permette, e ad Atene questo succede molto spesso, quei giardini sono la meta delle mie lente passeggiate.
Attraverso Viale 28 Octovriou, entro nel verde del piccolo parco, e mi dirigo sempre verso la stessa panchina, la più ombreggiata fra le tante, quasi sempre miracolosamente libera, come se aspettasse il mio arrivo.
E seduto su quella panchina, guardo i bambini giocare con la palla e sfrecciare con le loro biciclette multicolori, guardo le giovani mamme controllare i bambini che giocano, osservo i ragazzi più audaci sbirciare le mamme che vigilano sui piccoli felici e chiassosi.
E' questo il mio mondo ormai, il mondo di una persona anziana che alla vita ha dato tanto e che dalla vita tanto ha ricevuto.
Anche oggi sono qui. Come ieri e come, forse, domani.
Questa panchina dalla vernice scrostata ha su di me un effetto del tutto particolare: è un pò il lettino dello psicanalista e un pò la macchina dei sogni, una via di mezzo fra uno strumento di tortura e una giostra incantata, il confine sottile e labile fra passato e presente.
E' il luogo dove la mia mente può viaggiare libera e leggera nei ricordi, volare senza peso sull'orizzonte del mio passato per poi posarsi delicatamente dove vuole.
E anche oggi, come sempre più spesso mi accade, mi assopisco.
E la mia mente va, tra il sonno e la veglia, al passato, a quel passato che più è lontano nel tempo e più sembra attuale, reale, vivido, intenso.
Ma si sa. I vecchi dimenticano le cose di pochi minuti prima, ma ricordano tutto di quello successo tanti anni fa.
Non ho mai capito, e credo che mai capirò, se questa sia un'assoluzione o una condanna.
Era il nostro primo anniversario. L'anno precedente, tra le spese per il matrimonio, l'affitto di casa e quel minimo d'arredo necessario, eravamo rimasti senza una dracma. Le nostre famiglie ci avevano aiutato quel tanto che potevano, e cioè molto poco.
La vita era dura per tutti, nessuno escluso.
Dopo il matrimonio, ci eravamo concessi solo pochi giorni a Corinto. Avevamo preso una vecchia corriera scassata, felici ed eccitati come solo due sposi di 24 anni potevano esserlo; ed erano stati giorni di sesso e amore, di risate e di bagni in mare, di progetti e di promesse.
Ci sentivamo come sospesi nel vuoto: i nostri passati che si erano uniti in quel presente che sarebbe divenuto un unico futuro.
Quel misero viaggio di nozze, povero di mezzi ma ricco d'amore, passò rapidamente, riportandoci ben presto ad Atene e ai nostri lavori.
Ma l'anno successivo, per il nostro primo anniversario, essendo riusciti a risparmiare qualcosa, a prezzo di lunghe ore di straordinario nell'ufficio contabile dove ero impiegato e di turni aggiuntivi come cameriera nel ristorante dove Marika lavorava, decidemmo di regalarci cinque giorni a Creta: sarebbe stato il nostro vero viaggio di nozze.
Arrivammo ad Iraklio nel tardo pomeriggio, a bordo di un ansimante traghetto partito dal Pireo quasi 20 ore prima.
Avevamo prenotato una pensioncina a Pelaghia, un piccolo borgo sul mare ad una decina di chilometri da Iraklio. Un autobus decrepito e affollato ci portò alla nostra meta.
Pelaghia era un villaggio di casette bianche e celesti, stretto tra il mare e le colline, dalle stradine strette e tortuose; la nostra pensione affacciava sul mare e dalla finestra della nostra camera lo sguardo spaziava verso l'infinito azzurro di mare e cielo.
Dopo esserci rinfrescati e cambiati d'abito, Marika ed io uscimmo per le strade a passeggiare, felici ed innamorati come non mai.
Camminammo a lungo per strade e stradine, vicoli e piazzette, fermandoci spesso ad ammirare i luoghi più suggestivi, i panorami più incantevoli, gli angoli più nascosti e caratteristici, le piccole chiese ortodosse avvolte in un mistico e pungente profumo d'incenso.
Il vento scompigliava allegramente i lunghi capelli neri di Marika, facendola apparire ai miei occhi ancora più bella di come era, accentuandole lo splendore del viso, la luminosità dei suoi occhi e l'intensità del suo sorriso. E camminando abbracciati, i miei sensi
pieni di lei, ancora non mi capacitavo che Marika fosse mia moglie.
I piccoli negozi stretti gli uni agli altri, e le semplici botteghe poco illuminate e molto caotiche, vendevano artigianato locale e cartoline, ruvidi teli di spugna e sandali da mare, spezie dagli intensi profumi e pesce dal pungente odore: era un bazar, senza pretese e senza lussi, fatto di povere cose e di tanti colori, ma dove potevi trovare di tutto.
Ad un angolo di strada una donna anziana, avvolta nel classico nero dei vestiti popolari greci, vendeva fiori e frutta, in un incredibile miscuglio di colori ed odori.
Comprai a Marika una rosa rossa, bella e profumata, dal gambo lungo e liscio, le spine accuratamente rimosse: avrei voluto comprarle il mondo, regalarle le cose più preziose che ci fossero, ricoprirla di tutto quello che il cuore mi spingeva a donarle.
Ma il mondo non era alla mia portata.
Potevo solo amarla e stringerla a me. Una rosa rossa e mille abbracci. Questo potevo allora.
E Marika lo sapeva ed accettò quella rosa rossa come fosse un gioiello dal valore inestimabile.
Cenammo in una taverna del piccolo porto, su tavoli scheggiati e consunti e sedie antiche e traballanti e con il profumo di pesce arrosto nell'aria.
Ci tenemmo per mano quasi tutta la sera, gustando dolmades e moussaka, gamberetti di Symi e polipo, vino bianco di Creta e uzo.
Ballammo il sirtaki nella piccola piazzetta antistante la taverna, con i pescatori del villaggio che celebravano, suonando il bouzuki, la fine di un altro giorno e l'inizio della battuta di pesca notturna.
Ogni tanto Marika annusava il profumo della rosa e i suoi occhi si
illuminavano di felicità.
Fu una serata lunga e meravigliosa, che ci riportò alla nostra pensione solo a notte fonda.
La sua lingua scorreva lungo l'asta del mio pene, soffermandosi sulla punta con abili movimenti.
Con una mano mi stringeva delicatamente i testicoli, mentre con l'altra si pizzicava i capezzoli eretti.
Avevamo lasciato la finestra aperta e la luce della luna rischiarava debolmente la nostra camera, consentendoci, però, di vedere i nostri corpi, giovani, nudi ed eccitati, ed esaltando, anzi, lo splendore e la lucentezza dell'ambrata pelle di Marika, creando una magica atmosfera di erotismo e di sensualità.
Alternando la lingua e la bocca, Marika mi portò più volte vicino all'orgasmo, fermandosi sempre in tempo, in una tortura implacabile e sconvolgente, ma deliziosa e sublime.
Poi, con sguardo malizioso, mi fece sdraiare sul letto e mi montò sopra e, afferrandomi il pene con la mano, lo guidò dentro di lei; restammo un attimo immobili, uniti nel corpo e nell'anima, fusi uno nell'altra con il rumore delle onde ad avvolgerci.
Marika si sollevava quasi fino a sfilarselo e poi, dopo un istante, si riabbassava velocemente, impalandosi completamente; erano movimenti lenti e suadenti che mi arrivavano al cervello come una scarica elettrica.
La testa rovesciata all'indietro, mia moglie si carezzava i seni con le mani e, mentre io la tenevo per le natiche, ansimava e gemeva come poche volte l'avevo sentita.
Ero ormai prossimo a venire, quando Marika accelerò il movimento di colpo e, mettendosi un dito in bocca, iniziò a godere; schizzai il mio seme dentro di lei, in un orgasmo travolgente e liberatorio.
Facemmo l'amore teneramente per ore, non saziandoci mai l'uno dell'altra.
Esplorai lo splendido corpo di mia moglie, carezzandola e baciandola con estrema delicatezza, ma spinto da una passione irrefrenabile. Ci amammo con i corpi e con le menti, in quella modesta stanza di Pelaghia, stanza che ci sembrava essere un castello incantato, il castello di una favola scritta solo per noi due.
Dopo l'amore restammo sdraiati a lungo a parlare, carezzandoci vicendevolmente.
E quando le carezze iniziarono di nuovo a farsi più intime e piene di desiderio, dal comodino presi la rosa rossa e iniziai a farla scorrere delicatamente sul suo seno, indugiando sui capezzoli, nuovamente duri ed eretti.
Lei rimase sorpresa solo per un attimo, poi chiuse gli occhi e si abbandonò al gioco.
Lentamente le feci scivolare il fiore fra i seni e sul ventre piatto, poi risalii fino al collo e alle orecchie, sentendola rabbrividire di piacere; quindi la rosa scese nuovamente lungo il suo corpo, teso ed eccitato da sensazioni sconosciute, ed iniziò a carezzarle le gambe e l'interno delle cosce.
Riuscivo solo ad immaginare le sensazioni incredibili che Marika doveva provare, travolta da quel lieve tocco di petali che nessuna mano e nessuna bocca potevano eguagliare. Sospirando estasiata per quel morbido ed erotico massaggio, aprì completamente le gambe.
Mi mostrò il suo sesso completamente aperto e incredibilmente bagnato e la rosa risalì lungo le sue gambe fino ad iniziare una lieve danza sulle sue labbra perfette.
Ora aveva aperto gli occhi e guardava come ipnotizzata il movimento del fiore; i suoi sospiri si stavano trasformando in ansiti, i suoi mugolii in gemiti di piacere sempre più intensi.
Quando con il gambo presi a tormentarle il clitoride, Marika mi guardò e, in un sussurro, mi disse: "Ti prego amore, masturbati" .
E mentre i suoi occhi erano fissi sulla mia mano che con sapienza portava il pene verso l'orgasmo, e mentre i petali della rosa rossa le sfioravano il ventre, e mentre il gambo danzava una danza sempre più sfrenata sul suo clitoride, venimmo in un orgasmo mai provato fino ad allora...
La panchina ora è al sole. Mi scuoto dal mio torpore, e per qualche secondo non realizzo dove io sia.
Poi rivedo i bambini e le mamme e anche con la mente torno ai giardini di Piazza Omonia, alla mia panchina, al presente.
Sono quattro anni ormai che Marika non c'è più.
Il tempo e la malattia se la sono portata via.
Fino all'anno scorso andavo a trovarla anche due volte alla settimana: arrivavo con l'autobus di fronte al cimitero, compravo una rosa rossa dal banchetto vicino all'ingresso e, camminando per i
viali curati, giungevo alla sua tomba.
Di fronte a lei, di fronte all'amore di una vita, controllavo che il gambo del fiore non avesse mai spine, che fosse liscio come il gambo di quella rosa rossa di sessanta anni prima.
Poi appoggiavo la rosa sulla lapide e restavo lì, pieno del suo ricordo.
Adesso la vado a trovare più raramente: non ho più le forze necessarie per arrivare da solo fino al cimitero.
Qualche volta uno dei nostri tre figli mi ci accompagna, ed allora il rito della rosa si ripete.
So per certo che Marika non è arrabbiata con me per le poche rose che riceve; dovunque lei sia, sa che mi sto avvicinando sempre più a lei, giorno dopo giorno, lentamente, a piccoli ma inesorabili passi.
E sono sicuro che anche per lei la vera rosa rossa resta quella di Creta, la rosa di quella notte del nostro primo anniversario.
E sono anche convinto che Marika sappia che le spine di tutte le rose che le ho portato in questi anni sono qui, conficcate nel mio vecchio cuore.
Un bambino sfreccia davanti a me in bicicletta, quasi sfiorandomi e facendomi trasalire. Lo osservo pedalare felice e gioioso, un piccolo missile che corre lungo il vialetto.
Se questa panchina mezza sverniciata è il mio presente, io, con i miei ricordi, sono il passato.
E questi bambini che giocano spensierati sono il futuro.
Ed è meraviglioso che sia così.
Appoggiandomi al bastone mi alzo dalla panchina e, dopo un attimo di incertezza, mi avvio verso casa.
Diagoras
Diagoras