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Racconto n° 1621
Autore: Diagoras Altri racconti di Diagoras
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La sabbia di Pilmiro
Erano tre anni che lavoravo in quel villaggio.
Il signor Markopoulos, il proprietario della struttura, nonchè vecchio compagno di scuola di mio padre, mi aveva offerto il posto il giorno dell'inaugurazione del villaggio.
Mi aveva assunto come lavorante di spiaggia. Dovevo portare i lettini, aprire e chiudere gli ombrelloni, ascoltare le richieste dei turisti e risolvere tutti quei piccoli problemi che su una spiaggia, affollata di vacanzieri, ogni giorno si presentavano.
Era un lavoro ben pagato, ma duro e faticoso. Stare per sei mesi l'anno sotto al sole, dalla mattina alla sera, sette giorni su sette, non era per nulla semplice.
Mi ricordo che alla sera ero sempre distrutto, ma, a ventiquattro anni, trovavo lo stesso le energie per divertirmi.
E, d'altronde, era impossibile non farlo.
Nella discoteca del villaggio, nelle piscine aperte anche di notte, tra le feste sulla spiaggia e le uscite nei locali dei paesi vicini, la vita non si fermava mai; le ragazze straniere erano le "prede" di noi locali, in quelle torride nottate estive.
Anche se, a pensarci bene, il più delle volte, le "prede" eravamo noi: le ragazze, ma anche le donne con qualche annetto in più, non si facevano certo scrupoli dal farci intendere quali fossero le loro voglie. E, come potete ben immaginare, la cosa non ci infastidiva di certo.
Vivere sull'isola dove ero nato mi piaceva, ma il mio sogno era quello di trasferirmi ad Atene o a Salonicco, e di aprirmi un ristorante.
Era un sogno, naturalmente, perchè le mie finanze non erano allora particolarmente brillanti, e quelle della mia famiglia lo erano ancora di meno.
Avevo due fratelli e una sorella, tutti più piccoli di me, e lo stipendio di impiegato comunale di mio padre bastava a malapena ad andare avanti.
Erano, dunque, tre anni che lavoravo e che contribuivo ad aiutare a casa.
Ma al di là dei sogni e dei progetti, ero contento della mia vita e di tutte le avventure sentimentali e sessuali che la costellavano.

Era quello, dunque, il terzo anno di lavoro al villaggio.
Ogni settimana, quasi sempre la domenica, vi era il ricambio dei clienti.
Chi aveva finito la vacanza ripartiva, per lasciare il posto ai nuovi che arrivavano. C'era, ovviamente, anche chi restava due settimane, ed assisteva a tutto questo via vai con una certa aria di superiorità e di soddisfazione.
L'isola, troppo piccola, non poteva avere un aeroporto.
I turisti arrivavano con i loro voli a Cantorini, e, quindi, venivano trasferiti con battelli ai villaggi della nostra isola.

Quel lunedì dei primi di agosto scesi in spiaggia al mattino presto, come facevo ogni giorno. Prima che la spiaggia si affollasse, mi concedevo una lunga nuotata, per togliermi il sonno di dosso.
Quindi tornai a riva, e iniziai i miei lavori quotidiani, sentendo sulle spalle il sole già picchiare ferocemente.
Piano, piano, la spiaggia si andò affollando.
Il lunedì vi era sempre una strana eccitazione. Quasi tutti i turisti erano al loro primo giorno di vacanza, con le loro carnagioni pallide che, prima di sera, sarebbero state tra il rosso ed il violaceo. Ma la scoperta del mare meraviglioso e di tutte le comodità e distrazioni che il villaggio poteva offrire loro, generava sempre una particolare euforia che poi, con il trascorrere dei giorni, andava scemando.

Stavo sistemando alcuni lettini sotto un ombrellone, quando una signora mi si avvicinò.
"Scusi" mi disse in inglese "potrebbe aiutarci? Non riusciamo a far muovere le ruote della carrozzina... la sabbia...".
Era una donna sui quarantacinque anni, forse tedesca. Era sicuramente una bella donna, ma lo sguardo aveva un qualcosa di triste e di rassegnato. Non era lo sguardo di una persona al
primo giorno di vacanza.
" Certo signora. vengo subito a darle una mano. "
Mi avviai dietro a lei, risalendo la spiaggia, fino alla passerella in legno che, dal corpo centrale del villaggio, e costeggiando la piscina, arrivava al limitare della sabbia. Ero pronto a caricarmi l'ennesimo passeggino, o carrozzino, con qualche infante urlacchiante. Ma anche questo faceva parte del mio lavoro.

Avvicinandomi, vidi un uomo sulla cinquantina con accanto un ragazzino di dodici o tredici anni. L'uomo teneva le mani appoggiate sulla spalliera di una carrozzella, sulla quale era seduta una ragazza giovane e carina. Aveva sicuramente poco più di vent'anni.
Era bionda come il grano, con un cappellino da baseball in testa, e dal quale i morbidi capelli fuoriuscivano fin sulle spalle.
Il viso, incantevole ma dall'espressione dura, era dominato da due occhi azzurri e penetranti.
L'ossatura delle spalle e delle braccia era minuta, ma sotto la maglietta bianca si intravedevano le forme piene del seno.
Sentii una fitta al cuore, pensando alle sue gambe paralizzate.
Con il padre, sollevammo la carrozzina dai due lati e la trasportammo sulla spiaggia, fino all'ombrellone che la direzione aveva assegnato loro. L'appoggiammo all'ombra, ed i genitori mi ringraziarono per l'aiuto.
" Di nulla. Quando avete bisogno, chiamatemi " dissi loro.
Sorrisi alla ragazza e feci per andar via.
" Come ti chiami? " mi chiese, guardandomi dritta negli occhi.
" Dimitri. Mi chiamo Dimitri. E tu? " le risposi.
" Erika. Grazie Dimitri. Papà non ce l'avrebbe fatta da solo ".
" Figurati. Anzi, se hai bisogno di qualcosa... io sono sempre qui in giro..."
" Grazie "

Me ne andai verso la mia postazione, un ombrellone più grande, quasi in riva al mare, che era un pò l'ufficio di tutto il personale di spiaggia.
Me ne andai con la sua voce dolce e musicale nelle orecchie, provando un senso di pena e di tristezza per lei.
Guardai la spiaggia piena di gente che rideva e che scherzava: i bambini con le palette ed i castelli di sabbia, le coppie che passeggiavano abbracciate, i padri che giocavano nell'acqua con i figli... tutti che si muovevano, che erano autonomi... e poi voltai lo sguardo verso il suo ombrellone e la vidi lì, seduta all'ombra, con il cappellino in testa e le gambe coperte... e pensai come si dovesse sentire... come dovesse soffrire della sua diversità, della sua sfortuna. Malgrado il caldo soffocante, un lungo brivido mi percorse la schiena.

Erika e la sua famiglia erano tedeschi. Di Amburgo, per la precisione. E restarono al villaggio per due settimane.
Ogni giorno aiutavo il padre a trasportarla fino all'ombrellone, e poi indietro per il pranzo, e poi di nuovo sulla spiaggia fino a sera. Durante la giornata, quando il lavoro me lo permetteva, andavo da lei a scambiare due parole o a portarle una bibita fresca. Ma se i primi giorni lo facevo per lei, per essere cortese, lentamente mi accorsi che l'andare da lei era un qualcosa che mi faceva sempre più piacere, che cercavo l'occasione per stare con lei anche pochi minuti. Purtroppo il lavoro mi impediva di dedicarle tutto il tempo che avrei voluto.

Una sera, aggirandomi per il villaggio, la vidi con i genitori, ad un tavolo ai bordi della piscina. Erano al buio, sicuramente ascoltando la musica che veniva dalla spiaggia dove si stava svolgendo la serata greca per i turisti. Le note dei bouzuki arrivavano distintamente fino a loro.
Mi avvicinai e li salutai. Vollero che mi sedessi con loro a bere una birra. Mi dissero che il fratello di Erika era in giro per il villaggio, con altri ragazzini con i quali aveva fatto amicizia, e che lo stavano aspettando, per ritirarsi per la notte.
Erika mi chiese del mio lavoro e della vita di noi isolani, delle nostre abitudini e delle nostre tradizioni. Mi disse che era sempre stata affascinata dalle culture diverse dalla sua, e da quella greca in particolare.
Chiacchierammo così, per un pò, fino a quando il fratello tornò, ed i genitori di Erika manifestarono il desiderio di tornare nelle loro camere.
Stavano per alzarsi, quando istintivamente mi sentii dire:
" Signor Rais, se permette, vorrei far vedere ad Erika la festa che si sta svolgendo sulla spiaggia. E' un peccato che non veda i balli greci, lei che è appassionata della nostra cultura. Sarà mia cura riaccompagnarla personalmente alle vostre camere. "
Mi voltai verso Erika e mi persi nei suoi occhi. Sorrideva felice, forse come non faceva da tempo.
Anche i genitori se ne accorsero.
" Se Erika è contenta, per noi non ci sono problemi. "
" Si papà. Vorrei proprio vedere questi balli e ascoltare la musica. "
" Va bene. Allora noi andiamo. Dimitri, conto su di lei " mi disse il padre, battendomi su una spalla.
E così se ne andarono, lasciandomi solo con lei.

" Perchè lo hai fatto? " mi disse Erika, una volta rimasti soli.
" Fatto cosa? "
" Questo invito. Perchè vuoi stare con me? Vedi Dimitri, lo so che faccio pena alle persone. Ma io non voglio fare pena. Ho imparato a convivere con i miei problemi, e la pena degli altri mi fa rabbia, mi... "
" No, Erika. Ascolta. Io non provo pena per te. Cioè... certo mi dispiace vederti così... voglio dire... oh... al diavolo... ci vuoi venire alla festa oppure no? Io ti ho invitato perchè... perchè... perchè mi piace stare con te... e... e..."
Ero io che facevo pena. Non lei. Non sapevo tradurre in parole quello che provavo, e sicuramente lei avrebbe male interpretato le mie intenzioni...
" Dimitri? "
La guardai. E le vidi gli occhi colmi di felicità.
" Dai. Portami a questa festa. Solo... non credo sia così semplice. La carrozzina. Da solo... non ce la farai a sollevarla. "
Ma rideva. Ed era contenta.
" Non ti preoccupare. E' molto più semplice di quanto tu possa pensare. "
Mi alzai e spinsi la carrozzina lungo la passerella. Il cuore mi batteva a mille.

La spiaggia era invasa dalle note di Zorba ed alcuni falò rischiaravano la notte. I turisti ballavano e si divertivano.
Sapevo che tra non molto alcuni ballerini greci avrebbero preso a danzare il sirtaki, il pezzo forte della serata.
Eravamo arrivati al limite della passerella.
" Possiamo restare anche qui, Dimitri. La festa la vedo lo stesso " mi disse Erika.
" Lasciamo qui la carrozzina. Ti porterò in braccio, dai... "
Erika rimase interdetta solo per un attimo.
" Guarda che peso... " mi fece sorridendo.
" Oh, ce la farò in qualche modo " le risposi.
Erika si tolse il telo che le copriva le gambe e, per la prima volta, la vidi senza.
Indossava un paio di pantaloni leggeri, bianchi.
Mi chinai su di lei e le passai un braccio sotto le ginocchia.
Infilai l'altra mano sotto l'ascella destra e, mentre lei mi cingeva il collo con le braccia, la sollevai.
Era leggera e delicata ed il suo lieve profumo mi avvolse.
" Ecco fatto. Andiamo. "
E così dicendo mi avviai sulla spiaggia.

La trasportavo senza sforzo, il suo viso vicino al mio, le sue braccia strette a me. Sentivo sotto la mano le sue gambe, magre ed inerti, abbandonate ed inutili.
Eppure... stringerla a me era una sensazione sconosciuta, stupefacente e meravigliosa, così emozionante ed unica che ancora oggi, a distanza di anni, la ricordo perfettamente.
Arrivammo proprio mentre iniziavano a ballare il sirtaki.
Le sedie di plastica erano tutte occupate ma un ragazzo, vedendoci arrivare, si alzò, cedendole il posto.
Delicatamente la depositai sulla sedia, inginocchiandomi poi al suo fianco.
Restammo così, a lungo, a guardare la festa attorno a noi.

" Da quanto tempo..."
" Sono quattro anni, ormai. Avevo diciannove anni quando ebbi l'incidente. Una macchina sbandò e mi colpì, facendomi cadere dal motorino. Restai una settimana in coma e quando ne uscii, le gambe... non funzionavano più. "
Eravamo al bar sulla spiaggia, seduti ad un tavolino, una coca cola davanti.
La guardavo in viso e quanto era bella!
Gli occhi azzurri fissi nei miei, i capelli biondi e lucenti, la sua voce, calma e serena, malgrado tutto.
Sentivo il mio cuore scivolare su una strada pericolosa, una strada che non ci avrebbe portato da nessuna parte. Lei sarebbe presto ripartita, tornata alla sua difficile vita, ed io non potevo e non volevo crearmi e crearle illusioni.
Dovevo mantenere le distanze. Amicizia, e basta. Volevo che si divertisse durante quella vacanza, come si stava divertendo quella sera. Ma oltre non sarei andato. Aveva sofferto gia abbastanza.

" Cosa c'è, Dimitri? Perchè sei così silenzioso? "
" Nulla, Erika. Pensavo al tuo incidente..."
" Dai, questa sera mi hai fatto divertire molto. E te ne sono grata. Ma ora non ci rattristiamo. E' successo. E nulla può cambiare questo. Sai... si impara a convivere con l'invalidità. Si riesce a farsene una ragione. Si arriva ad accettare la propria diversità. Certo, in ogni istante ti rendi conto di tutto quello che hai perso... di tutto ciò che non potrai più fare... di quello che avresti voluto... e che, invece non sarà. Si accetta, alla fine. Quello che però rimane difficile da accettare è la pena negli occhi degli altri, quel sentirsi guardati in modo diverso. E' strano, ma... hai visto quando quel ragazzo si è alzato per cedermi il posto? Ecco, un atto di cortesia e di gentilezza... ed è in quei momenti che capisci che non sei come gli altri, che la vita è stata crudele... e allora..."
Due lacrime le scivolavano lungo il viso. Solo due.

" Vieni " le dissi.
La sollevai dalla sedia e la portai via dal bar allontanadomi lungo la spiaggia, lontano dai falò e dalla musica.

La tenevo stretta, in braccio.
Il mare, davanti a noi, era rischiarato dalla luce della luna.
" Scusa, Dimitri. E' che, a volte, credo di essere più forte di quello che... "
" Sshhh... "
E la baciai. Le sfiorai le labbra delicatamente per farla tacere, per non sentire la sua sofferenza.
La guardai negli occhi e vidi la sua sorpresa. E vidi la sua gioia.
Cercai nuovamente le sue labbra e le nostra lingue si abbracciarono, si cercarono, si parlarono. La sentii rabbrividire sotto le mie mani e capii di amarla.

Quando la riaccompagnai in camera era tardi, ma la madre di Erika la stava aspettando alzata. Sicuramente per aiutarla a mettersi a letto.
E quando vide lo sguardo felice e sognante della figlia, anche nei suoi occhi spuntarono due lacrime.

Uscivamo insieme tutte le sere.
Mi ero fatto prestare una macchina. Prendevo Erika e la facevo sedere accanto a me, chiudevo la carrozzina e la mettevo nel bagagliaio.
E poi giravamo per tutta l'isola: la portavo nelle taverne a mangiare il pesce, la spingevo lungo le stradine dei paesini, a vedere gli angoli più remoti dell'isola.
Ero felice di stare con lei, di abbracciarla, di stringerla a me.
Era una felicità sconosciuta e totale.
Sapevo di amarla con tutto me stesso, e non volevo pensare al futuro. Perchè ero convinto che un futuro non ci sarebbe stato.
Erika si era trasformata. Sempre allegra e sorridente, era tornata ad essere quella ragazza che un tempo sicuramente era.
Ed anche i suoi genitori, vedendola così, erano sollevati, contenti come non lo erano più stati, forse, dal giorno del suo incidente.

I giorni passarono fino alla sera che precedeva la sua partenza.

Per quell'ultima sera le avevo organizzato una sorpresa.
Dopo aver cenato in una piccola taverna, con la macchina avevamo raggiunto la spiaggia di Pilmiri.
La sabbia fine e bianca, il mare sempre placido e tranquillo, due scogliere piuttosto alte che la chiudono sui lati, Pilmiro è un piccolo angolo di paradiso.
Da dove si lascia la macchina, bisogna percorrere circa settecento metri prima di arrivare alla spiaggia, profonda una ventina e larga non piu di cento.
Di giorno ci si arriva principalmente con la barca, mentre la sera è sempre deserta.
Lasciammo la carrozzina in auto e, presa in braccio Erika, la trasportai fin sulla spiaggia. Non c'era anima viva e, a parte lo sciabordio del mare illuminato dalla luna, non si sentiva alcun rumore. Solo i grilli e qualche cicala.
Per il resto il silenzio era assoluto.
Appoggiai Erika sulla sabbia per il tempo necessario ad aprire il largo telo da mare che avevo portato. Poi la ripresi n braccio, e la misi seduta sul telo.
Sedetti anch'io, accanto a lei, e restammo per lunghi minuti ad osservare il mare, in silenzio.
Fu la ragazza a romperlo.
" Sono state giornate splendide, Dimitri. Meravigliose. Erano quattro anni che non mi sentivo così felice. "
Le cinsi le spalle con il braccio e la strinsi a me.
Non sapevo che dirle. Avevo già i miei pensieri e i miei sentimenti da mettere a posto: ora lei sarebbe partita e quello di cui avevo paura all'inizio sarebbe accaduto.
Ci saremmo lasciati, così, come se nulla fosse successo.
E non volevo illuderla, non volevo illudere me stesso, raccontandole cose non vere.
Ero pazzo di lei, ma capivo che il futuro non ci apparteneva.
Lei sarebbe tornata in Germania; io sarei rimasto sull'isola.
E presto tutto sarebbe stato solo un ricordo.
Sentii la sua mano sulla mia guancia.
" Ti amo, Dimitri. Ma questo non basterà, lo sappiamo tutti e due. Ma voglio che tu sappia il bene che mi ha fatto stare con te. Sarebbe stato bello, amore mio. "
" Anche io ti amo, Erika. Da impazzire. Quello che sarà io non lo so, ma ora godiamoci questa ultima sera che abbiamo per stare insieme. "
E così dicendo la baciai. E la strinsi ancora di più a me.

" Voglio fare l'amore con te " mi disse, semplicemente.
Sapevo che sarebbe stato un errore, ma anche io volevo quello che voleva lei. La desideravo così tanto da essere quasi spaventato dai miei sentimenti.
Lo avremmo fatto, avremmo fatto l'amore, perchè così era scritto nel nostro destino.
Mi sbottonò la camicia, e la sua mano prese a vagare sul mio petto, carezzandomi, morbida e delicata.
Le sfilai la maglietta e le sganciai il reggiseno, scoprendole i due seni, sodi e perfetti, Erika si sdraiò con il busto sul telo, attirandomi a sè.
Le passai le mani sui seni, quindi li percorsi con la bocca, titillandole i capezzoli, subito duri, con la lingua; Erika chiuse gli occhi e iniziò a sospirare, la sua mano affondata nei miei capelli. La baciai e la leccai lungamente, perso in lei e nel mio amore per lei.
Poi, le sfilai i pantaloni e le mutandine, lasciandola nuda di fronte ai miei occhi.
Era splendida, meravigliosa. Adagiata sul telo, aspettava che io la prendessi, impossibilitata a muoversi come di certo lei avrebbe voluto. Mi chinai a baciarle le gambe, magre e dai muscoli inerti; avrebbero potuto essere lunghe ed affusolate, dai muscoli guizzanti e scolpiti. Magari, per gioco, lei sarebbe fuggita lungo la spiaggia, nuda, per farsi raggiungere da me, ridendo felice di quel gioco...

" Prendimi, Dimitri. Fammi sentire viva e normale. Anche se in queste condizioni, io sono una donna. Amami. Ti prego... "
Furono momenti bellissimi e al tempo stesso terribili.
Vederla così, indifesa e desiderosa solo di un pò di amore, sentire in lei la consapevolezza che quel maledetto incidente le aveva reciso la vita, obbligandola ad una immobilità orribile e definitiva, tutto questo mi faceva star male.
Ma fu proprio in quei momenti che capii definitivamente che avrei fatto l'amore con lei non per pena o compassione, ma perchè l'amavo come non sarei riuscito ad amare nessun'altra ragazza. Contro ogni logica e contro ogni razionalità. La amavo. Solo questo contava.

Mi spogliai completamente anche io, e, con il timore di poterle fare del male, mi allungai delicatamente su di lei.
Baciandole le labbra, le appoggiai il pene, spasmodicamente eretto, al sesso, ma le gambe chiuse di Erika mi impedivano la penetrazione.
Dandomi dell'idiota e maledicendo la mia scarsa attenzione, mi risollevai da lei, che ridacchiava divertita del mio imbarazzo, e, piano piano, le allargai un pochino le gambe.
Quindi mi stesi nuovamente su Erika e, con estrema delicatezza, la penetrai.
La sentii rabbrividire, le sue braccia mi strinsero e le sue mani presero a percorrermi la schiena.
Lentamente, attento a non farle del male, iniziai a muovermi dentro di lei, in quella sua dolce intimità, calda e bagnata, abbracciandola e baciandola. La sua pelle, a contatto con la mia, era calda e liscia, morbida e profumata.
La sentii gemere ed ansimare, mormorare il mio nome e giurarmi amore eterno; con calma, entrando ed uscendo gentilmente dalla sua vagina, la portai ad un orgasmo intenso e prolungato.
Quando nei suoi occhi lessi tutta la soddisfazione che i nostri corpi le avevano regalato, accelerai il ritmo per arrivare anche io al punto di non ritorno.
E quando vi giunsi, uscii rapidamente da lei e, appoggiandole il pene sul ventre, le schizzai sulla pelle tutto il mio seme caldo.

Mi distesi accanto a lei, e restammo abbracciati a lungo, in silenzio, ad ascoltare il mare ed il frangersi lieve delle onde.
Furono momenti unici ed indimenticabili.
Dopo un pò di tempo, pensai che avrei dovuto ripulirla di tutto lo sperma che le macchiava la pelle.
La guardai e vidi che anche lei mi fissava.
Mi alzai e la presi in braccio.
" Andiamo a lavarci " le dissi ridendo, e baciandola sul collo.
" Non vorrai..." Era il ritratto della felicità.
" Certo. Non puoi ripartire senza aver fatto almeno un bagno nel mio mare. "
E così entrai in acqua, con lei in braccio.
Mi immersi nell'acqua tiepida, tenendola stretta a me.
In acqua, Erika mi sembrava una piuma: leggera ed impalpabile.
" Pronta? Trattieni il respiro... "
" Dimitri, ma cosa... " protestò scherzosamente.

La portai sott'acqua per alcuni secondi. Quando riemergemmo le asciugai gli occhi con i miei baci e poi trovai le sue labbra, salate e disponibili.
Rifacemmo l'amore, poi, in acqua, con un trasporto ed una passione che non avevo mai provato.

E il giorno dopo Erika ripartì per la Germania.

Così passarono alcuni mesi dalla sua partenza.
Ci sentivamo di tanto in tanto per telefono, ma più spesso ci scrivevamo.
Erika mi raccontava delle sue giornate e dei suoi studi, ed io le dicevo del mio lavoro e della mia vita sull'isola.
Avevo creduto che, con il passare del tempo, l'avrei dimenticata, e che anche lei, tornata nel suo mondo, relegasse la nostra storia estiva in quello scomparto del cervello che usiamo come archivio dei ricordi.
Ma, invece, la sua mancanza si faceva sempre più intensa e dolorosa.
E dal tono della sua voce, e dalle lettere che mi scriveva, avvertivo come quel breve periodo di felicità fosse per Erika molto più di un ricordo.
La sentivo cupa e triste, spenta, come quando l'avevo vista arrivare al villaggio. E sapevo, con una consapevolezza atroce, che la causa del suo malessere era proprio quello che era accaduto fra noi l'agosto precedente.
Stavo male a quel pensiero, ogni giorno di più.

Poi, verso la metà di dicembre, mi arrivò una lettera.
Non era di Erika, ma dei suoi genitori.
La aprii con mani tremanti, non sapendo cosa aspettarmi.


Amburgo, 10 dicembre 1984

" Caro Dimitri,
perdonaci, ma lo stato emotivo e psicologico di Erika ci impone, per quanto possibile, di aiutarla.
Come sicuramente ti sarai accorto parlandole al telefono, Erika vive un periodo molto difficile. L'essersi innamorata di te le ha giovato moltissimo, in un primo momento.
Ma adesso, ora che si rende conto di come Amburgo sia così lontana dalla tua isola, ora si sta chiudendo in se stessa, e la sua condizione di invalida le pesa come un macigno.
Proprio ieri ci diceva che, se lei non fosse stata paralizzata, sarebbe già partita per raggiugerti, per venire a vivere con te, perchè lei è certa che anche tu la ami.
Noi crediamo, invece, che la realtà sia diversa.
Ed i medici che la seguono sin dai tempi dell'incidente, sono decisamente preoccupati per il suo stato di salute psicologica.
E allora noi abbiamo pensato che tu possa esserci d'aiuto.
Siamo certi che i tuoi sentimenti per Erika siano stati onesti e puliti durante la nostra vacanza. Ma crediamo anche che, come del resto è logico, oggi i tuoi sentimenti nei suoi confronti non siano più così intensi. Sicuramente sarai ancora affezionato ad Erika, ed è per questo, per il suo bene, che ti chiediamo di farle capire che, per te, la cosa non è così importante come lei si ostina a credere.
Soffrirà per questo, ma come ci dicono i medici, alla fine se ne farà una ragione e riconquisterà un pò di tranquillità.
Sappiamo di chiederti molto ma ti preghiamo di aiutarci a far stare meglio nostra figlia.

Con affetto

Hanna e Rolf Rais "

Piansi. Piansi a lungo, disperatamente.
Avrei dovuto dirle che non la amavo più, che la nostra storia era stata solo una cosa estiva, passeggera, effimera come la fiammella di una candela nel vento.
Dovevo dirle che non l'amavo più, quando invece ero pazzo di lei.
E dovevo farlo per lei, per il suo bene, per aiutarla a dimenticare quei meravigliosi giorni di agosto.
Me la immaginavo immobile, sulla carrozzella, nella sua camera...
Piansi. Piansi come non avevo mai fatto nella mia vita.

Alzai lo sguardo e, tra le lacrime, vidi mio padre fermo sulla soglia della camera.
" La ami? "
" Sì, papà. La amo con tutto me stesso. Ma la sto facendo soffrire, le sto facendo del male... ed è l'ultima cosa che vorrei... non so cosa fare... "
" E invece lo sai quello che devi fare. A ventiquattro anni non si è più bambini. Fai quello che senti. Parti. Vai da lei. E vivi la tua vita. "
Lo guardai. E poi guardai la lettera che stringevo in mano.
La stracciai e la gettai nel cestino.

Era la sera di Natale.
Un vento gelido spazzava la strada e la neve cadeva fitta ed incessante.
Non avevo mai visto la neve e non avevo mai sofferto il freddo come in quei momenti, abituato com'ero al clima mite e sempre tiepido della mia isola. Mi sembrava di gelare.
La strada era deserta. Avanzavo faticosamente, lo zaino sulle spalle, cercando di leggere i numeri civici delle villette che si susseguivano, scrutando i cancelli e nei piccoli giardini.
Alberi di Natale e festoni luminosi illuminavano gli interni delle case, certamente calde ed accoglienti.

Continuai ad avanzare in quella notte di festa, con il mio leggero giubbotto come misera protezione.
E, finalmente, ripulendolo con la mano dalla neve, lessi il numero che ansiosamente cercavo: 134.
Il cancello era socchiuso e, affondando nella neve, mi diressi alla porta d'ingresso. Tirai fuori dalla tasca la mano intirizzita e suonai brevemente il campanello, il cuore in tumulto, la testa che mi girava per l'emozione ed il timore di fare la cosa sbagliata.

Mi aprì il padre.
" Desider...? "
" Buonasera signor Rais " gli dissi, in una nuvola di vapore che mi uscì dalla bocca.
" Santo cielo... Dimitri! " mormorò, stupefatto.
Uscì, e si accostò la porta alle spalle.
" Mi perdoni, signor Rais. Ma non ho potuto. Non ho potuto dire ed Erika che l'ho dimenticata, che non l'amo più.
Perchè non è vero. Ho bisogno di lei come lei ha bisogno di me. Forse, se avessi fatto come voi mi avete chiesto nella lettera, Erika, con il tempo, sarebbe stata meglio; ma io? L'avrei persa e..."
Vidi che mi guardava fisso, e le parole mi morirono in bocca.
Per un attimo, un lungo e terribile attimo, temetti che mi mandasse via.
Poi lo vidi sorridere. E quindi mi abbracciò, così forte da togliermi il fiato.

Mi fece entrare e nell'ingresso c'era la moglie, che, alla mia vista, sgranò gli occhi, subito colmi di lacrime.
A gesti, in silenzio, mi fecero cenno di andare verso il salotto.
E così feci, sgocciolando tutta la neve che mi si scioglieva addosso.

Tremando per l'emozione mi affacciai alla porta. E la vidi.
Erika era seduta su una poltrona, lo sguardo fisso al caminetto, alle fiamme che danzavano incessantemente.
Non mi aveva visto.
Lentamente mi accostai alla spalliera della poltrona e le appoggiai le mani sulle spalle.
Per alcuni secondi lei rimase immobile, poi voltò la testa ed il suo sorriso mi fece scoppiare il cuore.
" Lo sapevo. Lo sentivo. E ti stavo aspettando " mi disse, un sorriso di felicità ad illuminarle il volto.
Mi inginocchiai accanto a lei e unii le mie labbra gelate alle sue, calde e morbide.
E fu come tornare a Pilmiro, alla spiaggia dove avevamo fatto l'amore.

Vi dicevo che io avevo un sogno. Quello di aprire un ristorante, ad Atene o Salonicco.
Beh, l'ho aperto. Anzi, ne ho aperti tre. Ma ad Amburgo.
Ristoranti tipici greci. E ho fatto fortuna, insieme ad Erika, mia moglie.
Ho imparato il tedesco e non soffro più il freddo. Erika, invece, è diventata più greca di me, ormai.
E ogni anno, da vent'anni, torniamo all'isola, per un mese di vacanza e di sole.
E tutti gli anni, la sera prima di ripartire per Amburgo, prendo in braccio mia moglie e torniamo sulla sabbia di Pìlmiro, a guardare il mare e a fare l'amore.

Ci siamo comprati anche una casetta nostra, in paese, di fronte al mare, dove verremo a vivere quando saremo stanchi di lavorare, e ormai anziani.
Ci crogioleremo al sole e al tepore della nostra isola.
E, insieme, aspetteremo che la vita passi.

Diagoras

Diagoras

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