Ottobre era ancora caldo. La pioggia carezzava i muri frizzando l'aria appena appena. Una nebbiolina nascondeva che ora fosse del giorno oltre i vetri appannati dall'interno. La luce filtrava fina fina, attraversava la cortina spessa delle tende e ravvivava il verde dell'organza. Si diffondeva un chiarore a modo di bambagia e, in un certo senso, questo confortava.
Era piacevole sentire lo strascico degli orli in macramè sul pavimento di moquette. Tutto quel colore d'erba era etereo e si seminava come muschio sopra il legno del mobilio, raggiungeva le pareti e si arrampicava sul soffitto, tornava e si sdraiava languido tra le lenzuola ancora sfatte e, infine, si perdeva in un riflesso di se stesso dentro l'armadio a specchio; era sempre come avere il frusciare della seta intorno, il piacere impalpabile del nulla. Tutto era in una nube immaginaria di prati al tramonto.
Dovevano essere circa le sei, l'ora tarda di un pomeriggio d'autunno, un giorno in cui il vento ne sparpagliava ovunque la mise giallo-bruna e rossiccia. Io fantasticavo a guardare quel carnevale sul suolo cittadino: migliaia le vesti di stagione infradiciate sotto la pioggia, sparse e senza riguardo. E speciale, come un confetto di una rara promessa, affacciata sopra un vicolo di Roma, c'era quella stanza e dentro c'eri tu a riempirsi goccia a goccia della marea che già agitava dentro, e seduceva me, con lo stupore di una favola. Sorprendentemente.
Stavi seduta ed incantata nella posa, affascinante e abbandonata sul velluto di una poltrona vittoriana come una bambola nuova. Troppo incantevole per crederti vera, troppo dolce nella resa da convincere ad averti senza distruggerti in un sogno. Una bambola davvero, talmente lattea splendeva la tua pelle, preziosa come la bianca porcellana. Ricordavi il candore dei mattini dell'inverno.
E gelida ti si sarebbe detta, e senza respiro, ma bruciavi invece inconsapevole di una voluttà che conquistava. Al punto che temevo, mai avrei smesso di toccarti, di volere il tuo respiro tra le dita. Ero stregata e compiaciuta di me stessa, ti avevo scoperta. Tu mi guardavi, ubriaca di noi, senza allentare mai l'implorazione nei tuoi occhi.
Seduta, tenevi un braccio fermo sul bracciolo e la mano stretta stretta sulla spirale intagliata al margine del legno, mentre morbidamente stavi appoggiata allo schienale ed avevi l'altro braccio ripiegato in grembo: restavi immobile anche se, a volerlo, ti saresti potuta alzare ed in qualunque momento andare via.
Conoscevi del tempo il godimento, dentro di te con il suo insinuarsi lento, tra gli interstizi sempre nuovi dei pensieri. Tacevi e, mentre mi cullavi incredula nell'armonia dei tuoi silenzi, mi supplicavi muta che ti portassi al mondo o, almeno, che ti consentissi l'eco di una voce. Per sussultare, per sospirare, e magari per sussurrare qualche parola a pelle.
Eri nuda sotto la cascata bionda dei capelli. Nuda, e priva di ogni altra volontà non fosse mia. Ti volevo così sino a che morisse il giorno, trattenuta per le ali nel bel mezzo del volo, nell'istante preciso in cui fuggivi dal bozzolo, da cui mai avrei permesso ti liberassi del tutto: amavo della bramosia la corsa dentro i tuoi occhi, come punti di spillo, anneriti all'intimidazione.
Docile, ti davi alla spazzola tra i capelli, ciocca a ciocca riconoscevi i denti del legno, dapprima cauti ad insinuarsi sul fondo e poi svelti a correrti dalla nuca fin dentro.
Insistevo e ti scioglievo, ero di metodica lentezza. Io, in piedi dietro di te, ti pettinavo da non dirti mai come avrei cominciato, dove avrei interrotto la discesa e se avrei mai accentuato quella carezza esasperante.
Stavi immobile, una bambola dentro una stanza, bella al punto da dirti fasulla mentre ti ravviavo in fremiti la mente, dalle radici dei capelli fino al pelo rasato del pube. Eri mia, incontrata casualmente da una sarta alla ricerca di un vestito su misura; entrambe con un sogno, un altro, morboso quanto questo. Eri mia, complice ed amica.
I capelli filavano la trama al desiderio, il tuo già concitato e pronto ad intrecciarsi con il mio. Anelli biondi e anelli neri che si incatenavano gli uni agli altri e ci legavano strette, amanti, come un doppio giro di collare. In punta di dita percorrevo quell'invisibile legame e sempre, in quel bagno biondo che ti inondava sulle spalle, ti indovinavo i vuoti d'anima indiscreti e solitari laddove c'erano i tuoi riccioli ribelli, quelli dietro il collo in mezzo ai brividi, dove intensificavo apposta il tocco in risalita e delle unghie la lusinga più insistente.
Di continuo sentivo incurvarsi il tuo respiro e, ad ogni ansito, mi ritrovavo a districare qualche nodo chiuso in gola.
Erano lunghi ed incredibili fili di seta, onde dorate che lasciavo affastellare come assolate mani sul pallore della carne: sul tuo viso e sulle guance, lungo il collo, fino al seno che sfioravano a ventaglio.
E ad ogni onda, tu sentivi il farsi vacuo di ogni poro della pelle, percepivi l'annaspare anomalo del corpo, la scossa della grana di ceramica al calore di ogni ciocca. Inaspettatamente, come fosse un caldo alito. E una preghiera si appagava allo spuntarti turgido dei bocci, dove qualche ciuffo si avvolgeva e si serrava come un paguro sulla roccia. Quelle, erano creature da strappare con un gemito; erano fiori da estinguere in eterno tra le dita.
‘Sei bella' ti dissi, evidenziando con la lingua dura di un rossetto quelle punte così rosee e troppo oscene. Ingrandivo il profilo alle tue areole e seminavo rossi schizzi di passione, di ogni bocca tracciavo la cornice delle labbra, che aperta e strozzata nel respiro ti smarriva nell'offerta di te stessa: i capezzoli erano il fior fiore di un ibisco, il sesso un gran calice di petali raccolti, scarlatti e deflorati.
Il rosso ti donava, per quel pulsare vita troppo intensa che vedevo non riuscivi a trattenere. Tu gemevi, in silenzio, screziata bambola in cremisi.
La mia mano dipingeva, senza tregua, passavo e ripassavo sui contorni. Ti ripercorrevo inginocchiata tra le gambe, su per quella linea scura e fatta densa che ti spariva dentro. Le mie dita ti sfumavano le forme lungo i bordi: ti accendevo d'amaranto piega a piega spianandoti le gocce color succo di amarena e ti inseguivo, curva a curva, in quell'incupirsi liquido dell'estasi. Scivolavo a lungo ripiegando in quel bordeaux, mai accordandoti però il compimento pieno del disegno. Il rossocupo l'amavo a scorrerti negli occhi, inarcato dal profondo delle viscere, a costringerti in una morsa inarrestabile lo sguardo.
In vertigini vermiglie di piacere volevo dondolassi libera la mente. Eri una bambola da regalare senza remore. Eri da presentare a Michael con il più enfatico entusiasmo per festeggiare insieme, te infiocchettata a un polso con un nastro in raso rosso.
Ed eri pronta, velata in quel bagliore smeraldino di finestra, eri esaltata della tua pelle di alabastro e del carminio delle rose in evidente fioritura.
Così ti preparavo, fino alla Sua presenza sulla porta, fino a sentirla acuta nella stanza, violenta come l'ansia che ci raggrumava dentro.
(A Michael e a Irene)
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