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Racconto n° 1721
Autore: Giulia Lenci Altri racconti di Giulia Lenci
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Jill
Non ci vuole molto a capire quando una donna non ti ama più.
Me ne sono reso conto quel giorno delle prove. E' scivolata nel vuoto priva di entusiasmo, quasi sbadigliando, come se attaccarsi alle mie mani fosse ormai un esercizio senza brivido. L'agganciai come sempre, con forte dolcezza e, mentre dondolava appesa a me, le sorrisi mandandole un bacio con le labbra. Lei sollevò gli occhi. Non splendevano. Erano appannati dalla noia e, lanciandola per il doppio salto mortale, udii chiaramente un sospiro d'impazienza.
Jill era stufa di me. Si era innamorata di Dugbèn, quell'impiccione mangiafuoco che puzzava di bruciato. Li avevo sorpresi nel camerino di lui durante l'ultima rappresentazione: lei era in estasi sotto la sua bocca rovente.
- Ma quale bacio? - si era difesa - Volevo sentire il gusto del fuoco... -
Già.
Avevo deciso di lasciar perdere, per non perdere Jill, e lei mi aveva ricompensato accettando di seguirlo a Shanghai, dove lui aveva un contratto.
Avrei sopportato anche questo, certo che si sarebbe stufata presto di quell'esemplare di orco mal riuscito. – Figurarsi: uno che non mangia la crème caramel perché si muove. Mi sono spiegato. -
Sì. L'avrei attesa a braccia aperte, la mia Jill, perché sapeva farsi perdonare. Aveva un tocco di lingua micidiale. Me lo faceva drizzare solo passandosela tra i denti, aprendo appena la bocca rossa. Poi, a occhi chiusi, sentivo la punta della sua lingua poggiarsi su di me, e andavo in visibilio. Cominciava dal collo, Jill, pian piano scendeva lungo il mio corpo e, accovacciata come una placida colomba tra le mie gambe, avvolgeva e svolgeva la lingua tiepida, fino a farmi sprizzare gioia come natura comanda.
Una sera, le prove si erano protratte più del dovuto e piombai nel sonno immediatamente. Di notte, rigirandomi, allungai un braccio e non la trovai. Completamente sveglio, mi precipitai a cercarla. Girovagai come un fantasma, finchè percepii un respiro cavernoso provenire da dietro le ceste dei pitoni. Adagio adagio m'intrufolai nella semioscurità , nell'alone giallognolo della lampadina appesa ad un filo, vidi una scena che qualunque uomo prega di non vedere mai. Lei, la mia Jill, inginocchiata ai piedi di Dugbèn, vibrava colpi con la testa, avanti e indietro su quello che mi sembrò un pitone. Ammetto, ne aveva le dimensioni, ma non fu l'invidia ad incendiarmi a tal punto da temere di veder uscire davvero le fiamme dai miei occhi. Lei, la mia Jill, fine e delicata come un fiore, dava strattoni tanto forti da poter fraintendere gli spasimi di piacere di quell'energumeno per gemiti di dolore. Una rabbia gelida m'impietrì dov'ero e li guardai fino alla fine. Quindi mi ritirai alla chetichella e a mente lucida decisi quel che decisi.
Non vorrei essere giudicato troppo male. Nel mio cuore non c'era nulla di definitivo. Tant'è che, la sera dello spettacolo, arrampicandomi per raggiungere il trapezio, sfiorai con le labbra il viso di Jill, sussurrandole: - Ti amo. - Lei si scostò infastidita, frusciando tutta nella mantella di raso rosso. Perciò salii leggero e determinato. Jill si tolse la mantella ed esplosero applausi e grida di ammirazione. Lei salì sorridendo con quella bocca rossa che purtroppo sapevo cos'aveva ingoiato. Stava arrivando a me con movenze feline e nel cono di luce risaltava il bikini color ciliegia luccicante di strass. Per un attimo la mia decisione vacillò. Solo un attimo.
Fummo uno di fronte all'altro e la musica iniziò a scandire l'andirivieni dei nostri corpi che il pubblico ammirava a naso in su. Il numero era senza rete, perché, come diceva l'impresario, - se c'è accordo, il rischio è divertimento. -
Già.
La fissai con tutto l'amore che era in me. Volava flessuosa, lieve e tranquilla, sicura. Della mia presa. Ci giungeva l'eco smorzata dei battimani frenetici, carichi di elettricità. Poi fu il momento dell'ultimo esercizio. Il più pericoloso. Jill si sarebbe dondolata come una bimba sull'altalena e, ad un certo punto, inarcandosi e tenendosi con le mani alla sbarra orizzontale, mi avrebbe offerto le sue gambe. Io l'avrei afferrata per le caviglie e l'avrei fatta ondeggiare fino a raggiungere un trapezio inviato dall'aiutante. Se avessi mancato la presa, lei sarebbe caduta rovinosamente di testa. Ma tutti quanti sapevamo che non era possibile. Provavamo ore ed ore ogni giorno e Jill diceva che ero la sua calamita, tanto si sentiva attirare dalla mia volontà.
Rullarono i tamburi e noi esitammo in una pausa ad effetto. E cominciammo. Il rullio cresceva e diminuiva, di nuovo cresceva e ancora diminuiva, nei fasci luminosi in cui volteggiavamo calmi. Jill oscillava con un sorriso strafottente, ed io intuii che già pensava a dopo, a quando sarebbe discesa tra gli applausi e si sarebbe gettata tra le braccia di Dugbèn. S'inarcò nel movimento che l'allontanava da me, afferrò con le mani il trapezio che si riavvicinava velocemente, vidi i suoi fianchi dare lo slancio che l'avrebbe protesa inevitabilmente inerme verso di me. Vidi le sue mani aprirsi abbandonando l'unico appiglio contro la forza di gravità. Vidi le sue gambe lunghe e snelle volarmi incontro. In un flash le immaginai divaricarsi voluttuose e arrendevoli sotto Dugbèn, e allungai le braccia.
Chiusi le mani a pugno, naturalmente.
Chiusi anche gli occhi. Mi avvolse l'ululato cupo che salì dabbasso. Infine fu il silenzio.
L'impresario mi fece espatriare quella notte stessa, nel senso che anche lui espatriò con me. Mi consolò, assicurandomi che aveva altri spettacoli in giro. E, regalandomi la sua comprensione, mi disse con un pacca sulla schiena: - La vita continua e di donne è pieno il mondo. -
Già già.

Giulia Lenci

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