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Racconto n° 1842
Autore: Giulia Lenci Altri racconti di Giulia Lenci
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Venerdì
Non voglio grane, il venerdì. Non bevo, non faccio a botte e, soprattutto, mi tolgo dalla stazione.
- Buona navigazione, Ammiraglio! - mi salutano i bastardi.
Corrono a prendere il mio posto sulla panchina e ad impossessarsi dei miei cartoni. Brutte carogne. Domani è un altro giorno – penso senza voltarmi – e vi darò quel che meritate. Stasera no, non posso. E' venerdì.
Cammino rasente i muri, evitando le luci. Anche con il bavero alzato si vede quel che sono. Già i vestiti parlano da soli, ma la barba e i capelli non ammettono dubbi. Fa schifo, un barbone, e io non voglio vedere il ribrezzo sul viso degli altri. Perciò vado veloce e quasi non sento il frastuono intorno a me.
Il grande bar di fronte al parco è pieno, a quell'ora. E' tanta, la gente che non cena in casa. Anch'io ci andavo, ai bei tempi, per l'aperitivo con i colleghi. Però rientravo per l'ora di cena. Sempre. Sempre qualche minuto prima di lei. Passo in fretta davanti alle vetrate. No, nessuno potrebbe riconoscermi, ma preferisco non rischiare, io che continuo a riconoscere i miei vecchi colleghi. Sono uomini a posto, loro. Hanno perso capelli e messo su pancia e doppio mento, ma sono uomini come si deve.
Le statue ai lati del ponte mi vedono ogni settimana e ogni volta sono più annerite di smog , impassibili nelle loro posizioni maestose.
Il ponte. L'ultimo tratto di città che mi separa da te. La pasticceria sul corso spande il profumo di cose buone per gente giusta. Sovente ci entravo, tanto tempo fa. Sono sicuro che ti piacciono ancora, i trancetti al pistacchio. Adesso la supero svelto, tenendomi sotto i platani del controviale, dove mi confondo con le ombre di chi attende il bus o si concede una passeggiata.
Poi. Poi finalmente sono nel viale che si arrampica sul fianco della collina. Tanto tempo fa lo salivo in automobile – Saab blu scuro interno panna – lampeggiando in curva, inerpicandomi a buon diritto tra i cancelli in ferro battuto e i giardini nascosti dalle alte siepi. Ora lo divoro passo passo ad occhi bassi. Non mi fermo e non rallento se abbaiano i cani, mentre il cuore batte da far male. Il mastino della penultima villa non abbaia più, oramai. Ringhia. Sembra che gorgogli, acquattato da qualche parte, minaccioso e indolente. Modula il suo avvertimento carico di disprezzo sulle note dell'oscurità che incupisce. Sa chi sono, lui.
L'ultima villa. Casa mia. Casa nostra, tanto tanto tempo fa. L'hai voluta tu, la veranda sospesa sul Passo del Cinghiale. Da lì si vede il buio oceano della notte cosparso delle miriadi di luci della città, ai nostri piedi. Ai tuoi piedi, scusa. E sotto, nel vuoto che attanaglia lo stomaco in una vertigine, la vallata brulla di terreni incolti, dove i cinghiali si azzuffano in primavera e i loro cuccioli si rincorrono con versi acuti. Chissà se c'è ancora, quel maschio isolato cui nessuno degli altri osava avvicinarsi. Si metteva sulla pietra piatta tra i salici del canalone in cui bevono e fissava l'acqua. Pareva pensare a qualcosa – ricordi?
Nessuno mi vede. Soltanto il mastino sa dove mi rannicchio e, se sto immobile, non ringhia neppure.
Quando la luce gialla pulsa nell'intreccio del glicine, il cancello si apre adagio in un ronzio monotono. Lui esce nell'automobile lucida - Mercedes blu con interno grigio -. Il cancello si richiude e la nostra casa – la tua casa, scusa – esplode di luce. Non ti è passata, la paura del buio. Negli ultimi tempi dicevi che era colpa mia. Anche quello. Tutto era diventato colpa mia.
Quel venerdì è stato un caso. Mi ero detto: solo cinque minuti e torno alla stazione. Credevo... chissà cosa credevo. Credevo di vederti felice con lui. Speravo di vederti nella veranda in penombra, con le candele che danzavano sulle pareti. Fare l'amore con lui. Come lo facevi con me. Volevo spiarti, vedere se anche su di lui ti muovevi calma, ansimando in profondi sospiri, le ciglia abbassate, le labbra schiuse e le lunghe ciocche dorate sulle spalle, sul seno. E quel lamento esile, trattenuto in gola con tonalità in salita a cercare sbocco nel grido prolungato sempre più alto e poi roco, in discesa nelle viscere che lo accolgono per scioglierlo in piacere. Volevo vedere se anche su di lui, alla fine, dimeni i fianchi con violenza, chiedendogli di affogare quel dolore sordo che senti con il balsamo tiepido da tenere in te a lungo, dopo, sdraiandoti – ricordi? – su di me, che ti abbracciavo, accarezzandoti e baciandoti fino ad addormentarci così. Invece. Invece lui è uscito. Le luci, tutte, si sono accese. Nella veranda, la tua sagoma rimbalzava da una parte all'altra, si accostava ai vetri e tornava indietro, ingoiata dalla solitudine scura, che di nuovo la respingeva. Tu. Tu, che io non lasciavo mai sola di notte. Tu, che hai preferito lui a me.
Tu, in silenzio accendevi le candele negli angoli. Spegnevi le luci. La tua voce insicura diceva: - Amore? - Rispondevo: - Tranquilla, sono qui. - Ero già lì, certo. Mi svestivo e mi sdraiavo sul divano fiorito di papaveri. Mi piaceva guardarti, mentre ti spogliavi. La tua pelle rischiarata dal tremore delle candele, sullo sfondo del cielo d'inchiostro punteggiato di stelle, che giù giù si fondeva con le luci della città. Noi eravamo lì, sospesi in un mondo solo nostro, lambito dall'alone fievole e morbido delle fiammelle timide. Salivi su di me. Chiudevo gli occhi. M'inghiottivi e mi respingevi, risucchiandomi lentamente con golosità. Tra le mie ciglia vibrava la nebbia luccicante delle mille luci lontane, addensate, sfocate e dilatate in un velo liquido. Il mio gemito usciva tra i denti digrignati, liberato dalla morsa spasmodica dei muscoli tesi. Poi era il limbo. Il veliero vagante sul mondo degli altri, immemore del tempo, sospinto dalla brezza leggera che agitava le foglie degli aceri, che ci portava l'eco delle grida dei cinghiali, svegliandoci.
E ti abbracciavo più forte.
Un venerdì dopo l'altro ti guardo girare per le stanze. So che il tuo cuore batte da far male. Non stai ferma un momento e non ti affacci a scrutare il Passo per cercare le figure dei cinghiali. Non sei più su di un veliero. Sei sulla zattera cui ti aggrappi nel terrore della notte. Lui torna tardi, molto tardi. Sono sicuro che non gli dici: - Amore? - , perché sai che non risponderebbe: - Tranquilla, sono qui. -

Giulia Lenci

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