Forse è quest'afa che strina la pelle, forse è quell'uomo che con gli occhi mi spoglia, forse è il frinire delle cicale tra i rami secchi di alberi esausti, forse è soltanto il desiderio che provo nel riflesso sull'acqua d'una barca che passa, ma il mio passo si affretta verso la curva dell'argine basso, dove la sagoma nera dell'imbarcadero si tinge di viola nel barbaglio dei raggi d'un sole che muore.
E' polvere spessa, quella di un viale deserto, che sale e aderisce al sudore sotto la gonna che danza leggera sui fianchi, pizzicata in una piega vogliosa tra le cosce, e lì preme. Uno strusciare insistente, indiscreto e invitante per gli sguardi maldestri di chi va di fretta e per caso incrocia le mie gambe scoperte a fendere quest'aria malata, pesante.
Sa di falso salmastro, la purulenza immobile della corrente che fissa rispecchia l'arcata di un ponte di pietra grigia, sonora. Trema il rimbombo della città incandescente su fasci d'erba ingiallita e piegata. Topi escono a frotte dai nidi radice dei salici chini sul fiume, che lento e melmoso trascina le foglie di braccia flessuose, protese a cogliere pietre profonde o forse sfiorare il ventre umido e molle che in silenzio s'increspa in brividi lunghi.
Ti penso mentre cammino, mentre la maglietta cede spazio ai seni succosi, frutti che gonfiano alla visione compressa tra le mie ciglia: il tuo viso nella penombra di travi scrostate e assi di legno azzurrate di cupo cobalto. Occhi neri senza illusioni, bocca che mai concede un sorriso, nemmeno quando il piacere ha appena donato un momento a parte in questa vita che fugge.
- Sono i particolari, che fanno un uomo. La cicatrice a lato del collo, dove l'orecchio disegna morbide ombre. E' lì che la vado a cercare con la lingua che lecca e carezza il lobo carnoso e rotondo. Mi lasci fare, poggiato ai cordami a matassa, le mani sui fianchi, piegando la testa in un cenno di assenso, cercando nei miei capelli le note fiorite che aspiri.
La fossetta sul mento, come se la punta di un dito troppo vi avesse sostato, mentre qualcuno diceva - ancora - tentando di fermare a quel modo il tuo bacio, il tuo tocco, il tuo amore –
Sai cosa mi piace. E ogni volta ti neghi, volgendo gli occhi al tuo fiume d'acque fonde, aspettando che io mi avvicini e poggi la fronte alla tua schiena in muta preghiera. Il respiro che sale e che scende, il cuore che batte indifferente. Solo io posso sentire l'attesa dei muscoli sotto il nervo che tende. L'immobilità di un animale pronto a scattare e ghermire la preda. Calma ingannevole, mentre il mio viso adagio si leva finchè le labbra insistono su te, schiudendosi nel morso lieve che ti fa trasalire. E finalmente ti volti, mi guardi. Ti accorgi di me. Tu, bugiardo. Tu falso e impostore, che mi osservi severo e pieghi la testa a saziare i miei occhi – e tutto in me – di quel segno invisibile agli altri. Il piccolo arco all'angolo della bocca, lì dove inizia la guancia, ferma sotto il serrare della mascella. Ogni volta lo fisso a lungo, sfiorandolo con il polpastrello e infine accostandovi le mie labbra, mentre tu ti allontani sdegnoso.
Allungo il passo, incurante del vento improvviso che porta un'eco di tuono lontano e nuvole scure. Vorrei che tu mi vedessi così, i vestiti incollati a disegnare le curve e le fenditure nascoste che soltanto tu puoi sapere. Vorrei che quest'aria portasse con sé ad una ad una le fibre di tessuto che mi tramano attorno e contengono la mia voglia. Vorrei sentirle sfilarsi una dopo l'altra tra le dita del vento impetuoso e vederle fluttuare sulla superficie dell'acqua che, laggiù, riflette la figura di un uomo sul pontile d'attracco. Immagine ferma come un dipinto, eppure mobile nel tramestio di frasche agitate dal temporale che arriva. E quel tuo modo di stringere i pugni, intento a scrutare il mio corpo che avanza e ridesta in te il desiderio sopito dall'ultimo incontro, quando mi hai spinta via, oltre la porta. Forse la vedi, la mia bocca già aperta e la promessa che contiene nel luccichio goloso, al bagliore del primo lampo. Forse li vedi, questi capelli che m'impazziscono intorno, scaraventando ciocche sul volto e giù, dove indugia il tuo sguardo. Calamitato, lo so, dai miei fianchi che portano forti la disperazione da placare col tuo desiderio. E già cominci a negarti, rientrando nella casa d'assi azzurrate, a chiudere imposte, a oscurare lo spazio limitato da prue rovesciate come gusci abbandonati.
Adesso rallento. Non sarà uguale all'ultima volta. Tu bugiardo e impostore, tu avrai una sorpresa. Négati pure. La tua schiena diritta nello sbattere della porta sotto i colpi del vento. Tu falso. Tu sai che sono alle tue spalle. Tu sai che il mio corpo si spacca come frutto maturo e gocciola nettare in tiepidi umori. Ma tu non sai che oggi non attenderò condiscendenza e la mia fronte contro di te non sarà preghiera. Sarà saluto e nient'altro, mentre le mie mani correranno decise al tuo ventre, a farsi piatte sulla tua pelle, ad infilarsi lente e sicure nella cintura, tornando indietro come in un gioco, afferrando e tenendo ben saldo qualcosa che cresce. E sarai tu a chiedere. Tua la disperazione da placare con il mio desiderio.
Giulia Lenci