Eccomi qua, da solo, con una fotografia in mano. Il tempo è cambiato in fretta, l'estate è finita e comincia a fare freddo. Questa è la stagione peggiore per chi ha qualcosa da rimproverarsi.
E sono passati quattro anni da quella sera.
Ero stato un coglione e me n'ero accorto troppo tardi, forse. L'avevo accusata di essere un'egocentrica, preoccupata solo di se stessa e del proprio lavoro. Le avevo rinfacciato più volte il fatto di non essere mai disponibile, di girare il mondo senza di me e di volermi con sé solo come accompagnatore fantoccio, silenzioso e accomodante al suo fianco.
Poi avevo cominciato a respingerla, avevo cercato di mortificare il suo orgoglio paragonandola alle altre donne, le femmine vere, quelle che lavorano sì, ma si dedicano al marito e alla casa con la stessa passione con la quale coltivano i loro interessi. L'avevo offesa dicendole che non era poi tanto brava, lo era stata all'inizio, forse, ma il suo talento era andato perdendosi con il passare del tempo fino a fare di lei una fotocopia sbiadita di se stessa.
Con questa scusa, travestendomi da marito trascurato e ferito, la omaggiai della peggiore delle offese. Andai con un'altra donna senza fare nulla per nasconderlo. Mi feci trovare a letto con una bamboletta bionda e insulsa proprio il giorno in cui lei tornava finalmente a casa con le mani come sempre piene di regali, sorridente come una bambina che torna da scuola il sabato mattina con la consapevolezza di poter restare a casa fino al lunedì.
La vidi trasfigurare. Il suo sguardo, smarrito e incredulo... non lo dimenticherò mai. Fui persino capace di riderne allora, quando il mio primo desiderio era farle del male. Ma col tempo il ricordo di quegli occhi sbarrati acquistò una consistenza diversa, cominciò ad insinuarsi dentro di me progressivamente come un soffio di vento gelido, lo sentivo nelle ossa, mi dava i brividi e mi faceva male.
Allora, semplicemente, non potevo perdonarle di essere se stessa, straordinaria, calda, forte e detonante come il tuono di un temporale estivo, magnetica e irresistibile. Non potevo sopportare che fosse esattamente così com'era.
Arrivai al teatro che lo spettacolo stava per cominciare. "Cinque minuti" gridavano dalla regia, "cinque minuti" facevano i ragazzi con le mani aperte senza parlare, "cinque minuti" pensavano loro, i musicisti, rassettandosi gli abiti di scena.
Sperai che nessuno mi vedesse, invece fui intercettato da Josh. Era l'ultima persona che avrei voluto incontrare in una situazione del genere.
"Che cazzo ci fai qui?" mi chiese, digrignando i denti come un cane rabbioso. Non potevo dargli torto.
"Voglio vedere lo spettacolo" risposi con un tono il più possibile neutro.
Ci fu un attimo di silenzio tra di noi, un lasso di tempo che mi parve eterno. Io e Josh eravamo stati buoni amici, ottimi colleghi di lavoro, ci eravamo fidati ciecamente l'uno dell'altro in un'intesa quasi magica che aveva giovato a tutto il gruppo e che era stata, infine, incrinata e spezzata da lei. Non dalle sue qualità negative, dai suoi difetti intollerabili, semplicemente dal suo essere così com'era.
Josh mi portò in un palco defilato alla destra del palcoscenico. Gli promisi che non mi sarei fatto vedere. "Meglio per te" disse lui e scappò via. Lo spettacolo stava per cominciare e lui aveva un mucchio di cose da fare, io lo sapevo.
La grande sala era immersa nell'oscurità, tutte le luci della scena erano spente, si vedevano solo le insegne luminose delle uscite di sicurezza, in lontananza, verso il pubblico che vociava sommessamente, e le luci rosse intermittenti della strumentazione, là dietro, sul palco, dove tra qualche istante lo spettacolo avrebbe fatto irruzione, potente.
Trattenni il respiro. Era una vita ormai che non la vedevo dal vivo, era una vita che non la vedevo. Le fotografie sui giornali non le avevano mai reso giustizia.
Con gli occhi che ormai si abituavano all'oscurità riuscii a distinguere le sagome dei musicisti che, quasi di soppiatto, prendevano posto sul palco. Potevo vederli imbracciare gli strumenti e prepararsi a cominciare. Sapevo che ciascuno di loro stava respirando profondamente per alleviare la tensione, l'avevo fatto anch'io più volte.
Ross era l'unico sopravvissuto della formazione originaria e lo riconobbi subito. Non aveva la solita Les Paul sulla spalla, non avrebbe potuto perché quello era un unplugged. Ad occhio e croce doveva invece essere una Fender acustica, la stessa che adorava suonare lei, seminuda sul letto, con la sigaretta in bocca e una tazza di caffè fumante sul comodino.
Lei entrò per ultima, indovinai il suo profilo al buio, lo conoscevo troppo bene. Per un attimo desiderai non essere lì, mi voltai verso l'uscita del palco in cui mi avevano relegato. Capii che avevo paura di vederla.
In quell'esatto istante l'occhio di bue squarciò l'oscurità e la illuminò, solo lei, al centro della scena, investendola con un fascio di luce compatto che la fece risplendere tutta insieme, di colpo. Fu come la nascita di una stella, il dispiegarsi di una galassia nel vuoto nero dello spazio.
Il pubblico cominciò ad applaudire e a gridare con foga.
E lei era lì, a piedi scalzi su di una specie di tappeto persiano che copriva l'intero palcoscenico, coperta da un abito lungo rosso che contrastava splendidamente il castano dei suoi capelli, mossi e scomposti, come sempre.
Imbracciava la Gibson acustica che le avevo regalato qualche anno prima, quella che secondo lei aveva il timbro migliore di tutte, perfetta per uno spettacolo unplugged. Osservai le dita esili della mano sinistra circondare la tastiera della chitarra e articolarsi perfettamente in un La minore. Indovinai il pezzo che avrebbe aperto il concerto e un brivido freddo mi attraversò il corpo, era mio.
"Buona sera" disse quasi bisbigliando "questa è You Learn".
Il pubblico si lanciò in un applauso scrosciante e poi tacque di colpo quando le prime note della sua chitarra cominciarono a diffondersi nella sala. Le luci della scena cominciarono ad accendersi progressivamente illuminando il resto del gruppo.
Se lei era lì, anche io ero lì, solo come un coglione, non invitato, a contemplarla mentre cantava. La sua voce, con quel timbro inconfondibile, compatto e così prepotentemente femminile, mi entrava dentro, ripescando immagini indimenticabili di lei dal passato che avevo perso.
La rividi mentre in una delle tante stanze d'albergo che avevamo occupato, posava la chitarra sul pavimento e mi chiamava a sé, con quell'espressione a metà tra il bambinesco e il perverso che aveva il potere di eccitarmi subito ed irreversibilmente. Chissà in base a quale meccanismo diabolico mi aspettavo che si voltasse dalla mia parte, mi vedesse e ne fosse felice. Sognavo di vederla ripetere quel gesto di nuovo, in quel momento, posando la chitarra su quel tappeto colorato e abbandonando lo spettacolo per raggiungermi, portando con sé la promessa di un ricongiungimento. O qualcosa di simile.
Nonostante fossi attanagliato dal dolore e dal rimorso, lei, così splendente, continuava a sconvolgere i miei sensi come aveva sempre fatto. E non ero solo io ad essere rapito di volta in volta dalla sua sensualità impietosa, lo erano anche le migliaia di persone che compravano i suoi dischi e facevano la fila per vedere i suoi concerti, per godere di quello spettacolo unico nel suo genere.
Non c'era mai stata una donna che cantava e suonava il rock con quella carica inaudita e quella passione totalizzante. Io avevo cercato di negarlo a me stesso e a lei, per non soffrire della mia assoluta irrilevanza al suo fianco, della mia palese inutilità. Alla fine avevo dovuto prendere atto della realtà e tornare sui miei passi.
Come lei prese confidenza e la sua voce si scaldò di quel tanto che serviva a renderla perfetta, il fluire dei ricordi e degli spezzoni di vita vissuti insieme cominciò a diventare insopportabile.
"Joining you" mi passò attraverso, assieme alle immagini dei suoi capelli che si muovevano al ritmo della sua musica ed il ricordo di quella bocca sul mio sesso teso e dolorante, mentre mi dava un piacere che avevo cercato inutilmente nelle altre donne senza trovarlo.
Le vedevo ancora, quelle labbra, scivolare in quel modo su di me, comprimersi e stringersi in un abbraccio umido che mi aveva sempre fatto morire, letteralmente morire. Come lo sguardo che ogni tanto sollevava verso l'alto, mentre mi accarezzava con la punta della lingua. Uno sguardo che comunicava dedizione, amore, passione, voglia di avermi dentro e di farmi godere.
Dicono che quando una storia finisce, i ricordi che tornano nella mente di un uomo con maggiore insistenza siano quelli legati ai rapporti sessuali. In quel momento non c'era niente di più vero.
Mi sistemai meglio sulla sedia, mi sentivo a disagio, sentivo il pene indurirsi mio malgrado e non era il caso, sapevo che non avrei più potuto averla. Una reazione che contrastava con il mio stato d'animo come una risata sguaiata nel bel mezzo di una rappresentazione tragica.
Eppure la desideravo con tutto me stesso, proprio adesso che era lontana.
Se avessi avuto un'altra possibilità, l'avrei elevata al di sopra del mio orgoglio idiota, l'avrei collocata sul trono che meritava di occupare.
Il pubblico mostrava di gradire come al solito, l'entusiasmo continuava a montare come un'onda che si ingrossa lentamente fino a diventare imponente e mettere paura. Mi ero sempre chiesto come facesse lei ad affrontare tutto questo, io ne ero terrorizzato.
Lei no. Al Festival di Reading suonammo davanti a duecentomila persone, una marea umana che lei ipnotizzò e domò senza difficoltà, mentre io dovetti riempirmi di tranquillanti e di alcool, finendo con il crollare quasi in coma alla fine dello spettacolo.
Ecco perché la rifiutai, perché era più forte di me.
Dopo "Head over feet" ci fu un momento di pausa. La osservai mentre voltava le spalle al pubblico e si avvicinava verso la pedana dove era posizionata la batteria. Prese uno dei bicchieri che qualcuno aveva messo lì appositamente per lei e ne vuotò il contenuto. Poi tornò a fronteggiare il microfono e sorrise, finalmente, la prima volta da quando lo spettacolo era cominciato. La gente in sala cominciò a gridare come se avesse assistito ad un miracolo e lei sorrise ancora di più.
"Grazie" disse soltanto e si ravviò i capelli.
Una nuova fitta al cuore mi lasciò senza respiro. Io l'avevo perso quel sorriso, quello che io chiamavo "il mio sorriso obliquo" perché lei aveva l'abitudine di fare così, piegava gli angoli della bocca in modo asimmetrico.
Le veniva naturale soprattutto dopo che avevamo fatto l'amore, anzi dopo che lei me l'aveva fatto.
Sorrideva sempre così, dopo avermi cavalcato con furore, dopo che si era riempita di me con violenza, bellissima e selvaggia. Non li ho ancora dimenticati i suoi capelli che mi accarezzavano la faccia mentre mi scopava in quel modo, che mi finivano regolarmente in bocca e rischiavano di attorcigliarsi intorno alle nostre lingue mentre ci baciavamo.
In realtà avevo fatto finta di dimenticarmene, mi ero forzato a farlo, quando la volevo fuori dalla mia vita perché era diventata troppo per me.
"La prossima canzone non è una canzone di rabbia, è una canzone di liberazione dalla rabbia..."
La sua voce risuonava sempre più chiara e forte nella sala.
Le gocce di sudore che le rigavano il volto sembravano lacrime ed ebbi di nuovo la tentazione di andare via. Mi torturavo ostinandomi a restare lì, forse me lo meritavo ma ero troppo vigliacco per sopportarlo fino in fondo.
Nonostante ciò, non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso. Quella che era diventata un'icona, l'immagine della donna di talento, spregiudicata e sensuale, l'artista, la poetessa, l'oggetto dei desideri di un numero di persone che non avrei mai potuto quantificare, era stata la mia donna ed io l'avevo buttata via.
Il pezzo cominciò sommessamente, solo voce e piano, ma l'intensità con la quale cantava non era nuova per me. Sapevo che quando iniziava così, in sordina, la sua furia si sarebbe presto scatenata in una di quelle performance devastanti che avevano fatto la sua storia. Deglutii. Quella canzone nata quasi per gioco, per il piacere di stupire e di colpire, aveva assunto un significato nuovo e ironicamente vero. Io l'avevo tradita, umiliata e ferita e lei aveva, allora, un motivo reale per gridare la sua rabbia o per liberarsene.
La musica salì all'improvviso di volume e di intensità, in un crescendo che forniva una cornice agghiacciante ad un testo che io conoscevo benissimo.
"E sono qui per ricordarti il casino che hai lasciato quando sei andato via... la croce che porto e che tu mi hai dato... dovresti saperlo..."
Non sbagliò nemmeno una nota, nonostante cantasse quasi ad occhi chiusi agitando il meraviglioso corpo in una sorta di danza tribale, sfrenata e trascinante.
Il pubblico era ormai in piedi e ballava incurante del fatto che quello doveva essere uno spettacolo tranquillo, "di classe", come lo avevano definito, uno spettacolo da teatro, da seguire seduti in poltrona come un concerto di musica da camera.
Ma non lo era. Puoi anche togliere le spine alla musica rock, l'effetto sarà sempre lo stesso.
Lei cominciò a battere le mani a tempo ed in breve furono mille braccia che la seguivano estasiate. Un mare di carne che si agitava secondo delle regole che qualcuno aveva deciso di scrivere in un pentagramma. Eccellente, era davvero uno spettacolo eccellente, niente era andato perduto, nessuno l'aveva abbandonata. Lei era più forte, più sicura di prima e cento volte più provocante.
La musica tacque di colpo, lei restò lì, in piedi, sorridente, a godersi gli applausi.
Poi si voltò, la vidi sedersi sulle ginocchia di Ross. Lui posò la chitarra sul pavimento. Lo spacco del vestito si spalancò rivelando la carne chiara della coscia. Avrei voluto essere lì a toccarla, risalendo verso l'anca e piegando poi verso l'interno della gamba alla ricerca del suo sesso.
Invece sul palco c'era lui, che posò una mano su quella gamba e poi la tolse subito sorridendo come se avesse commesso un piccolo peccato, come se avesse rubato una manciata di caramelle sotto gli occhi della mamma. Li vidi ridere entrambi come ragazzini.
La musica ripartì, ancora una volta voce e piano. Lui tornò a toccarle la gamba e lei si fece più vicina con il bacino, si sistemò meglio su di lui con un movimento che non aveva nulla di innocente. Inorridii.
"I was hoping", uno dei pezzi nuovi, cominciò a scorrere lentamente intorno alla sua voce sempre più calda, dispiegandosi cantilenante tra i palchi del teatro, le file di poltrone, la gente ammutolita che ascoltava.
Lei cantava tenendo il microfono così vicino alla bocca di Ross che mi parve persino di sentire il suo respiro, mi parve di sentirlo assurdamente affannato, come se pregustasse qualcosa che lei gli avrebbe dato, dopo, nel cuore della notte, quando sarebbero stati soli, in un letto o Dio solo sa dove.
Magari è tutta scena, pensai, ma non ne ero per niente convinto. Ero così poco convinto da avere la nausea.
Non avevo mai sospettato di poter essere geloso di un amore perduto.
La fine dello spettacolo si avvicinava. Decisi di andare via, finalmente, non avrei aspettato un minuto di più. Cosa diavolo mi era passato per la testa... pensavo. Andare fino a lì per scoprire di non avere nemmeno il coraggio di guardarla. Costringermi a contemplare lo svolgersi di un mondo che ormai non mi apparteneva più. Io mi ero escluso da solo. Avevo perso quel treno.
"Questo è l'ultimo pezzo per stanotte..." le sentii dire mentre mi dirigevo verso la porta del palco.
"Si chiama 'Uninvited'".
Non invitato.
Mi fermai, dando le spalle alla sala e fissando l'uscita. Ascoltai.
"Come lo sarebbe chiunque
Sono lusingata dalla tua attrazione per me
Come ogni donna dal sangue caldo
Volevo semplicemente un oggetto da desiderare
Ma tu non sei ammesso
Non sei invitato
Una sfortunata mancanza di riguardo
Come un territorio inesplorato
Devo apparire terribilmente intrigante
Tu parli del mio amore
Come se avessi già provato un amore come il mio
Ma tu non sei ammesso
Non sei invitato"
La melodia sofferente di quel pezzo mi spaccò in due, lacerò il mio ritegno e cancellò la mia forza. Avvampai, la testa mi girava, gli occhi mi si riempirono di lacrime. Imboccai l'uscita quasi correndo e mi ritrovai in strada, senza pensare a nient'altro che ad allontanarmi da quel posto, dal luogo in cui stava avvenendo la sua consacrazione definitiva e, allo stesso tempo, stava fallendo il mio miserabile tentativo di riavvicinarmi a lei.
Feci lo slalom tra i fans asserragliati dietro le transenne, molti di loro agitavano delle fotografie, immagini stampate di lei in varie versioni. Lei con i pantaloni di pelle, lei con i jeans strappati, lei con il vestito corto a fiori, lei con l'abito lungo nero della notte dei Grammy Awards.
Me ne andai con la consapevolezza che in qualsiasi posto fossi andato lei mi avrebbe perseguitato. Le sue fotografie sui giornali, la sua voce alla radio, il suo volto alla televisione. Ovunque ci fosse stato uno spettacolo, ovunque lei fosse stata la protagonista, io non sarei stato invitato, mai più.
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Già, fotografie, ricordi. Una donna con la testa reclinata all'indietro e i capelli lungo la schiena. La bocca aperta di quel tanto sufficiente a scatenare una ridda di pensieri in lotta tra loro.
Adesso ho solo questa di immagine viva nella mia mente, più viva di quanto potessi immaginare.
Devo forzare la rappresentazione di quell'istante, allora, per piegarla ai miei desideri.
Devo calarmi lentamente in quell'ambiente immobile per impadronirmene.
E poi devo baciarla sulle labbra, sul mento e sul collo per averla nel bianco dello sfondo illuminato da un giorno che non conosco.
Devo fare scivolare la mia bocca sul suo corpo per poterla raggiungere, laggiù, tra le gambe, dove vorrei fermarmi, se mi fosse consentito, ancora una volta.
Devo semplicemente sforzarmi di immaginarlo, facendo finta che sia vero.
(Le canzoni citate sono di Alanis Morissette)
The Traveller