Per il momento resto sdraiata e non mi muovo.
Mi sono destata dal sonno all'improvviso, con lo stesso fragore di un delfino al salto, che fende e taglia la superficie dell'acqua.
21 Dicembre, il primo giorno d'inverno.
Riesco a malapena a percepire l'alba, la luce penetra fiocamente dalle stecche delle gelosie della veranda, il mio teatro sul parco e più in là, il mare.
Controvoglia metto un piede a terra, poi il secondo e mi tolgo la camicia da notte.
Non ho voglia di lavarmi e non perché i primi getti d'acqua sferzerebbero sul mio corpo ancora caldo di coccole di sonno, ma per quel noto sgomento che si prova nell'iniziare una nuova giornata, una nuova stagione di emozioni, di suoni e di parole; una stagione fuori dal silenzio.
Sono in piedi seminuda e il mio pensiero è già versatile da rompere la scorza del rigido della stanza; lo avverto penetrare nel suo senso interno e assaporarne il cosmo.
Posso accendere il mio impianto con un Contrapunctus qualsiasi: è la musica rapita che si concede all'idea degli spazi larghi, una potenza liberatrice che mi accompagna all'espressione d'immensità, di movimento; commozioni che si rincorrono, si incatenano, si abbracciano in un ideale preordinato.
L'arte della fuga, colonna sonora della mia esistenza: una sindone senza volto nè strumenti, un lino senza corpo: violino e violoncello che si accarezzano sornioni come due vecchi innamorati superbi, l'estensione degli organi e le infinite galassie degli archi; la corposità robusta dei fiati, le gradazioni perpetue del clavicembalo a planare e salire.
Ogni intreccio li fa vibrare uni agli altri, tra lunghe pause, e il grappolo di note, che accompagna al senso di benessere, rende implicito il mio disordine di ebbrezza, voluttà, abbandono ed esausta nostalgia.
Adesso sono l'eroina più importante: apro la cerniera lampo che mi soffoca dalla testa al sesso.
Vorrei essere puledro senza doma e correre... scappare dal mio recinto per un viaggio ai confini del mondo.
Con gli zoccoli galoppo la linea dei violini tra turbinii e scintille, sino a risalire la corrente e lanciarmi lungo sabbiosi sentieri ricoperti di coltri di foglie, sfrecciare nelle pinete argentee di abeti lussureggianti, correre vorticosamente tra i prati di erba gelata, irrompere nel bosco e calpestare la neve leziosa;
voglio ritrovare il mio stesso odore nella corteccia del verde perenne, affinare l'udito ad ogni passo e per i grevi corali della montagna, tra l'eco delle selve; liberarmi dalla voliera ed avere grandezza su cui volteggiare.
Poi riscendere sino all'imperiosità del mare, attingere i giochi d'ombra e i colori in queste notti di rare comete e sfrecciare in picchiata come un contrappunto che prorompe e si immerge nei flutti.
La mia tensione è densa, in un perfetto equilibrio nel marchingegno armonico.
Rimango qui, estasiata nei miei pensieri affondati in un do diesis, che ricoprono il mio ego come magma vischioso. E' l'ultimo corale che mi si oppone: - davanti a te io mi presento - .
Affondo finalmente i miei zoccoli nel terreno.
Queste scarpe scalognate mi trascinano oltre una geografia deserta: le impronte di sabbia sulla spiaggia non sono più rigide come la fretta delle convergenze.
E' il mio concerto d'inverno.
Infilo la divisa: tailleur e tacchi a spillo.
Vado al lavoro volentieri nella stagione fredda, affondo i rialzi nella sabbia laggiù tra cielo e mare, nel mio regno fatato, dove la natura è selvaggiamente simbolica e cresce l'euforbia proibita.
Come ogni mattina, nell'abbraccio sofisticato e commosso di una grande sinfonia. Dedicata all'inverno.
Rossogeranio