Ti ho aspettato, lì, nel punto in cui i mari si urtano, si mescolano con la loro furia, si uniscono.
Ti ho aspettato, lì, dove non si incontrano vele, dove il navigare è difficoltoso, dove il mare sembra risucchiare l'orizzonte.
Ti ho aspettato dove il vento ha raccolto i miei lamenti, ha sparso le lacrime finalmente scese, ha scomposto i miei capelli, ha sollevato la gonna lasciando che il gelo irrigidisse le gambe.
Poi ho smesso di aspettare ed ho vissuto altre vite.
Il mio lamento ha ricordato il pianto delle balene che si lasciano morire a riva: seducente cantilena ammaliatrice mentre lo sguardo è rivolto oltre l'orizzonte.
Non c'è niente oltre l'orizzonte, ora lo so, ma resto qui, ancora in attesa, forse, mentre un gabbiano ride di me.
- Che fai qui, scema, tutta sola?
- Osservo il tuo volo per imitarlo.
- Ma tu non puoi volare!
- E tu non sai guardare.
- Che cosa dovrei vedere?
- Il mio volo, scemo.
- Come ti chiami donna?
- Rosa.
Lascio correr via altri pensieri, come fili di aquiloni mi sfuggono dalla testa. Che cosa resterà di loro? Un puntino lontano, sempre più lontano, mentre io sarò qui, ancora e ancora, con le dita immerse dentro di me, gustando il mio sapore, spargendo il mio profumo di femmina. Che il vento lo porti via, lontano da qui. Ad un uomo, nell'abisso marino oppure tra i ghiacciai. Altrove, via da me. Fatico, sai, ad allontanarmi da me stessa, ad inventare altri sogni, a ballare altre danze.
La bocca è già arida, la lingua ruvida, anche se resto qui, e ci sarò ancora quando il mio sedere rinsecchirà come una prugna senza succo, quando il seno sarà appassito, quando il sesso resterà asciutto.
L'ombelico è ancora impreziosito da un sottile anellino d'oro con una campanellina appesa. Tutto ciò che mi appartiene.
Il vento si spande, si allontana da me, ritorna portando suoni che riconosco.
Ricordo come suonava quella piccola campanella quando mi voltavo per accoglierti tra le natiche. Tu spingevi il membro dentro di me e io mascheravo la leggera sofferenza con quel tintinnio. Non potrei più vivere senza quel tintinnio. Era sodo allora il mio culo e tu mi rincorrevi per afferrarmi le gambe. Io mi lasciavo precipitare in terra e mi aprivo a te. Così, con semplicità, senza clamore, ti accoglievo caldo e vibrante, voglioso di me. Ridevo, mi contorcevo, ma le gambe erano ben salde contro la tua schiena e mai avrei mollato la presa. Tu contro di me cercavi sempre la strada meno percorsa, quella che ti dava più piacere. Mi voltavo, mi riempivo di liquido caldo e dalla pancia sospesa la campanellina tintinnava.
Pensieri che restano, magie che scompaiono.
Il vento mi avvolge, si attorciglia intorno al mio corpo, si impossessa delle parole che trattengo nella bocca serrata, mi restituisce il profumo di me mischiato con l'essenza della terra, a ricordare che da lì veniamo.
Cerco la mia bussola. Un piccolo ago al suo interno indica la strada a chi sa dove andare. A me non indica nulla.
Io vengo da est, solo questo so. E il solco lasciato in terra conduce a ovest.
Guarderò allora il sole morire.
Che bizzarrìa, anche quando ho guardato te che infilavi il membro dentro la bocca di una donna sconosciuta, ho visto il sole morire. Ma ho continuato a guardare: ti ho visto spingere, ho seguito il tuo ritmo, ho focalizzato quelle piccole, mostruose labbra che ti divoravano, ho percepito il leggero tremore delle gambe prima di raggiungere il piacere. Ti ho udito urlare, certo un solo istante, mentre quella bocca non lasciava uscire neanche una goccia di te.
Ho chiuso gli occhi, reprimendo il desiderio di tagliarle la gola. Lei, quella lurida puttana, si era presa il tuo cazzo in bocca e questo mi era piaciuto. Un sordido, frusciante, soffocato piacere, si era fatto strada in mezzo alle mie gambe lasciandole bagnate. Un desiderio rimasto in sospeso. Sorprenderti, sfilarti il cazzo da quella bocca e lasciare che quelle labbra prendessero me.
Ma in fondo tutto è così grossolano, volgare, appariscente. Niente è fatto per restare. Ovvero, ciò che resta è il canovaccio della nostra vita.
Qui speravo di rigenerarmi, purificando la mente e il corpo.
Ma sono carne, niente altro che carne e fremo di te, di voi, di me.
A memoria di ciò che sono stata, di ciò che credo di essere, di ciò che vorrei diventare, resta soltanto un tatuaggio che invoca oggi rispetto e che incita lo sguardo ad andare oltre. Una rosa rossa e il suo gambo lungo ricoperto di spine. Il bocciolo si apre dall'inguine verso l'ombellico. Il gambo si allunga in direzione del sesso per proseguire nell'incavo della gamba. Scompare così agli sguardi impudenti. Pochi sanno che quel gambo prosegue verso la natica destra risalendo fino ai lombi. Un percorso da leccare, sfiorare, osservare. Una rosa e le sue spine. Guardare senza toccare.
Fu doloroso disegnare quel tatuaggio in quella parte di pelle sensibile e, ancora oggi, sfiorando quel fiore, percepisco il tormento della sofferenza. Ma proprio quel fiore ricorda chi sono, ricorda il mio nome.
Seguirò ancora profumi, spargerò ancora petali, mi approprierò di altrui aliti, infilerò la lingua in altre bocche, mi lascerò riempire di vita.
Sul mio percorso resteranno le tracce dei venti che avrò inseguito andando nuovamente verso est per inseguire un arcobaleno.
Si torna sempre da dove si proviene, all'origine di tutto.
Di me si parlerà.
Della mia rosa rossa.
Della rosa dei venti.
Malodo03