Sono compiuta e perduta, totalmente, in mezzo al deserto.
Ho abbandonato le zone temprate della terra.
Il sole ha riarso gli occhi dell'uomo che amo; l'aria secca gli ha segnato il viso di fitte linee sottili.
Il vento ci ha fatto volare via la cartina, l'aria ci asciuga i polmoni, stiamo soffocando: disperatamente soli, sbattuti in questa landa, senza una bussola, senza guida, senz'acqua.
Intorno a noi si spiega il paesaggio come un antico ventaglio, che perde a brandelli tutta la seta dipinta e riduce ad uno scheletrico seguirsi di piccole dune di nitido avorio. Qualcuno ha scalpato la terra, scuoiata sin dalle fondamenta.
Il giorno riluce, trasuda fino a screpolarsi, desquamare e coprirsi di piaghe.
Ormai a popolarlo non rimangono che gli echi.
Lo scenario che abbiamo trovato è lo specchio di chi siamo dentro.
E' mezzogiorno e il Re Sole splende a picco.
L'ombra mobile della nostra auto procede spedita su un terreno che si fa sempre più impervio. Alle nostre spalle si stendono pianure di rena, increspate dal vento, di fronte solo un bestione di rocce e nessuna traccia di vita.
Il motore prende a vomitare in maniera sinistra, dobbiamo essere a corto di fluidi.
Non ci resta che buttarci tra le braccia impetuose di quest'oceano invertito, dove presto, scompariremo insieme.
La jeep si arresta con qualche sussulto in un letto morbido di sabbia, spruzzando sui finestrini sottile polvere aurea.
Lui salta fuori dell'abitacolo cauterizzato e dopo un breve giro d'ispezione si attacca alla radio di bordo, nella speranza di lanciare un sos.
Mentre implora, io aggiusto un piccolo riparo con soffici stoffe intarsiate, oblazioni di questo Paese infuocato.
La sete ha cominciato a fendere le labbra e non c'è nulla da bere.
L'idea che possiamo morire mi erotizza, regalandomi brividi di piacere.
Il caldo mi attacca la gola prosciugata e le narici. Respiro a fatica.
Il cuore batte solo per sfinimento fatale.
Mi guardo le gambe già prive di forza, sono coperte di cipria fine dorata.
Sembro una bambola di pane di zenzero.
Arsa, bruciata.
Siamo agli albori o alla fine del mondo ed io nelle mie carni stupende, sono il frutto dell'albero della conoscenza che mi ha dato la vita, l'Eva primordiale vigente.
Mi guardo: il corpo arreca piacere. Allungo la mano e mi tocco un piede, dalla forma delicata, minuscola e sopravviene una visione improvvisa di gratificazione, un'esplosione narcisista. Faccio scivolare le dita lungo la linea precisa del polpaccio e della coscia. I miei capelli si spargono in un disordine sensuale, sul cuscino tessuto a mano di fattura amerinda. E' incrostato di umori sessuali che vi sono gocciolati sopra, tempo prima, unto con un fetore che evoca indistintamente d'incenso, di spezie e di hashish.
La luce bianca che si va trasformando mi scivola sul corpo nudo fatto di polpa, così incorporea che solo il fenomeno della persistenza nella visione, può giustificarne la sua presenza, in questo luogo.
La consuetudine di essere un'illusione ottica è troppo forte perché lui possa interromperla, semplicemente l'apparenza si è raffinata al punto di diventare principio di vita. Così s'inginocchia al mio fianco, in tutta la sua sacra purezza e mi gravita il capo sul grembo, delicatamente, sotto quel baldacchino screziato di baleni. Sento la sua guancia sulla pelle e poi quella massa tenue che si posa sul ventre, come un sussurro, come le piume sparse dei volatili, le ali bianche di un uccello grande, esanime, sospeso nel turbine di una tempesta di polvere.
Il desiderio mi ha ormai tolto tutte le forze ed ho timore di fare qualsiasi movimento che può apparire esplicito e brusco, per paura di spaventarlo e farlo andare via su quelle lunghe gambe da cicogna attraverso le lande isolate, ma sospiro appena per fargli assaporare la delizia che mi dedica. Mi mordicchia piano e comincia a ridere, soffocato, gli prendo il cazzo tra le cosce e lo stringo con dolcezza, non voglio che venga subito, voglio che duri, desidero che provi quel piacere, quando le forze ti vengono a mancare, quando la carne ti si scioglie, quell'incanto che snoda la donna al limite del delirio.
Poi con la mano che ha libera si avvicina all'ostrica cruda, squisita e violetta che la Madre mi ha reso nel taglio rossiccio, dove umori vischiosi bagnano e contrazioni, incontrollate, accelerano.
Noi siamo un'unica oasi nel deserto di sale.
La carne è una funzione di magia, riportata allo stato prenatale: l'odore aspro e selvatico che abbiamo impresso lo portiamo dietro ovunque.
Il tempo dell'eros ferma tutti gli altri.
Nutriti di noi stessi, infuocati.
Ci dissetiamo con le nostre bocche perché non c'e' niente da bere; e lo sbatto senza pietà, con una fame atavica, anche se alla fine la donna di vetro sotto di me va in frantumi, sotto il peso dell'accecante passione.
Le schegge si sparpagliano per poi ricomporsi in una figura d'estasi che prende il sopravvento, la penetrazione reciproca al di fuori del nostro sesso: l'ermafrodito ideale, il sussistere compiuto al quale abbiamo sempre aspirato.
Mentre il martirio trabocca in singulti il mio corpo, anche il suo essere viene, in quell'equivalenza recondita dell'orgasmo, la dissolvenza dell'io al chiarore dell'illuminazione polarizzata.
Restiamo sdraiati e immobili mentre il sole ci asciuga il sudore.
I raggi obliqui che tramontano scelgono il colore dell'oro alchemico e noi ci rannicchiamo insieme, in un amalgama di pelle.
Rimaniamo lì, mummificati, nella bellezza iconica di quell'abbraccio.
- Se un giorno ti svegli e non vedi più il sole, o sei morto o sei tu il sole - J. Morrison
Rossogeranio