[L'impianto di questo racconto, che avevo dato per perduto, mi è servito per
scriverne un altro, Provvidenza, che troverete pure qui. Adesso che l'ho
ritrovato ho pensato di proporvelo ugualmente poichè La Goccia e
Provvidenza, malgrado lo stesso impianto mi sembrano oggi due racconti molto
diversi.]
Prendo il bummulo di terracotta, lo alzo verso il Sole e mentre l'acqua mi scende nella gola secca mi maledico. Eccolo lassù, splendente, caldo, senza tregua. Né bello né brutto. C'è e basta. Buttana miseria, si alza ogni mattina, ci da la vita e rompe i coglioni. Lui si alza e noi poveri digraziati appresso a lui. Ci illumina, ci dice dove dobbiamo andare e poi non ci lascia in pace. Come il Papa. Come Dio. Terribile. Ma il Sole è la mano di Dio? Perché devo sudare tanto, perché questa luce deve venirsi a predere tutta l'acqua che ci ho dentro la carne? E non è neanche mezzogiorno. E io sono qui da sei ore ormai su questa terra secca che non finisce mai e cerco di tirare fuori il succo che lei tira fuori a me.
La camicia l'ho gettata via, i pantaloni di fustagno coprono i miei scarponi da contadino. Sono così belli d'inverno quando sono incrostati di fango, pesanti, umidi, quasi carnosi. Adesso sono solo impolverati come una mummia ma a me mi sembrano più pesanti che in inverno. Ah, si, nella terra bagnata affiondano e fanno rumore di risucchio come le giurane che sguazzano nel fango della gebbia. Mi piace sentirli. E poi questo colore. Io ho la pelle bianca, Mariuccia me lo dice sempre. In inverno. Quando torno dalla campagna e mi lavo le ascelle vedo che mi guarda ma non parla. Ma io lo so che pensa. Lei pensa che ci deve calare la pasta, che deve mettere il vino nella brocca e deve consare le olive. E poi si va a mettere a letto con lo scaldino, e la camicia da notte tutta bianca e larga larga che non ci vuole niente a tirarla su. E quando arrivo e mi corico accanto a lei, fa finta di dormire, sangue mio, per non darmi sazio. Ma a me mi basta il suo profumo e la minchia mi diventa quanto il manico della zappa, capace quasi di alzare la trapunta che ci copre. E quando le metto la mano sopra lo sticchio, sento un cespuglio piccolo piccolo, un poco puntuto come un rametto di rosamarina che nessuno ha potato. E io muovo la mano e poi la odoro, e sento odore di olive e di sticchio. Il suo sticchio odoroso di sapone duro, lo stesso che usa per lavare le robe. E ogni sera mi metto sopra a lei, le alzo la camicia e le bacio la pancia liscia. I baffi le pungono il viddico e poi i miei peli si immischiano coi suoi. Il vero secondo e là, tra le sue cosce di matapollo. Dopo la pasta, la carne, la carne di Mariuccia, sangue mio. E ti pare che dice una parola? Ma quale.... Non dice proprio niente, sta zitta e mi tiene la testa con le mani come se volesse grattarmi il sale duro che mi fa da brillantina, come a dire: non facciamo che te ne vai? Ma dove me ne devo andare? Tra le cosce di Mariuccia c'è il paradiso, si mangia, si beve, si respira. Sono come Alibbabba che entra da solo nella caverna del tesoro, senza quelle cose inutili dei quaranta ladroni. Eppoi qua io non rubo niente. E' roba mia, Mariuccia, sangue mio. Lei di notte non è mai sua, è mia, tutta mia e dentro la caverna ci infilo la lingua, il naso, mordo pure. Ma lei non parla, non parla mai mentre la licco. Ma le cosce le stringe, ah se le stringe. E mi chiude le orecchi, così, pure che parla, chi cazzo la sente?
Poi però comincia a tirarmi i capelli e io capisco che cosa vuole. Ho aperto la caverna e la lingua non basta più. Vuole la minchia, Mariuccia sangue mio. E io mi avanzo come quando ero soldato e il tinente ci diceva di fare il passo del liopardo. Ma io a quark li ho visti i liopardi e non è che camminano come quando io mi avanzo sul corpo di Mariuccia per ficcargliela. Mah... comunque mi avanzo e affondo la testa in mezzo alle sue minne gradi e morbide. Lei sta ferma, cioè non propriamente. Muove un poco i fianchi e cerca la minchia col corpo, senza le mani. Che scema, sangue mio, si vergogna ad afferrarmela. Così la cerca coi fianchi che a me mi piace da morire. Allora me lo afferro io e lo infilo. Lei non respira più, ogni volta mi pare che sta morendo. Prima mi scantavo ma ora lo so. Altro che morire. Campa benissimo e fa festa all'inquilino del magazzino che ha in mezzo alle cosce, quello in cui entro io ed escono bambini, cinque fino a ora.
Lei se ne viene subito e io lo capisco dal respiro e da come mi stringe la testa sulle minne. Io me la prendo comoda perché mi piace ficcare con criterio, dare alla minchia tutto il tempo di controllare che laddentro va tutto bene. E poi me ne vengo pure io. Sto un poco così sopra di lei a sentire il suo respiro che va come i minuti della pendola del nonno Gino. Poi mi alzo, accendo il lume, vado nel cesso e metto un poco di acqua tiepida nel vacile. Prendo un panno, lo bagno e la lavo da tutto il mio spacchime, piano piano. E' a questo punto che lei mi guarda e mi dice: gino, che pelle bianca che hai... e io: che fa, non ti piace, mi devvo abbronzare come gli attori di dallas? E lei, ma che dici gino, chi li guarda a quelli... No, mi piace la tua pelle bianca....
Ora invece è nera. neanche il segno della canottiera. Liscia è sempre liscia, ma è come più dura, con più spessore. Ed è asciutta, secca, marrone. Grasso non ne ho, non me lo posso permettere. I muscoli sono ancora buoni e quando tiro la vacca per portarla a mungere vinco sempre io. E la zappa mi pare ancora il muscarolo per fare vento allla carbonella quando arrostiamo gli sgombri o l'agnello davanti a casa. Ho le braccia lunghe, i muscoli lunghi, non come quelli dai picciotti che fanno il bodibildi o come cazzo si dice. Però sono di ferro.
E' ora di mangiare. Lascio la zappa sulla terra polverosa e vado verso il carrubbo. Ahhhh, ora si. Lassotto c'è un poco di ventolio e il sudore si asciuga e la smette di bagnarmi la cintura dei calzoni. Dal sacchetto del supermercato prendo il pane, apro la scatola di caponata di carciofi e quella della simmental. Mangio col mio coltello di innesto. Nemmeno io so come faccio a mangiare senza tagliarmi la lingua. ma lo faccio da sempre, da quando ero bambino e mio nonno Gino mi regalò il primo coltellino con la lama che si allarga verso la punta. Per mangiare è perfetto, è come un cucchiaio piatto. Nella bottiglia ho il vino rosso del paese. Rosso, oddio, proprio rosso non è. E' rosato, aspro e dolce insieme. Ho sete, me ne calo mezza bottiglia.
Il vento adesso sembra un poco più fresco e il carrubbo si lamenta come se qualcuno lo stesse strantuliando senza motivo. Volano le ciaule nere che sembrano corvi ma non sono corvi. Se ne vanno sul campo a fottersi tutti i miei semi, le buttane... le seguo con gli occhi un poco chiusi per il riverbero, laggiù verso la casa abbandonata. Abbandonata? Ma non era abbandonato quel capanno di attrezzi? E no... pare proprio di no. Sento rumori. Anzi, sento qualcuno che canta. Qualcuna, anzi. Una femmina? Non può essere. Che cazzo ci fa una femmina sotto il pico del sole in un capanno abbandonato?
Poi lei esce all'aperto. Madonnuzza mia.... Pare che non mi veda, ma come fa? Sono a non più di trenta passi. O sono io che sono ubriaco? Certo, vederla, la vedo. Piccola, capelli neri che arrivano sino al culo, lisci lisci come il lezuolo che copre la testa di santa Brigida portata in processione l'11 settembre. In faccia è bianca bianca ma le labbra sono come un fico aperto, rosse, grandi, devono essere morbide ma lei le tiene strette strette mentre cerca di aprire un barattolo di vetro, di svitare il tappo. Lo tiene stretto contro la pancia proprio sotto le minne e con la destra cerca di svitare il tappo grande. Ma ha le mani piccole piccole come una bambina, non arriva ad afferrarlo bene. La faccia è tesa, gli occhi socchiusi. Però si vede che ce li ha grandi. Un poco allungati che sembra forestiera, ma hanno una forma bellissima e incazzata. Le sopraciglia vicino al naso puntano un poco verso sotto come faccio io quando sto leggendo qualche cosa e non capisco un cazzo. Sarà l'incazzamento perché non sa aprire il barattolo. Lo stringe sempre contro la pancia, sotto le minne e le minne si sollevano sotto la camicetta nera. Forse si sollevano perché ce le ha piccole, almeno così pare perché non è che si vede molto. Ha una gonnella pure nera, un poco corta e un poco no, ma di lato è sfardata ma non capisco se è moda o perché ha impinto su qualche ramo o su qualche chiodo. Ma un poco si vedono le cosce: bianche, piccole colonne perfette che si ingrandiscono verso l'alto la dove le vedo sparire sotto la gonna e immagino che festa quando si incontrano a proteggere il culo e lo sticchio. E' a piedi scalzi nella polvere, piedi piccoli che non capisco come faccia a stare all'impiedi, caviglie che sembrano quelle della cavallina che l'anno scorso ha vinto il palio di santa Brigida. E della cavallina ha pure il naso. Ma non di forma, per fortuna. Ma come lo muove si, ci somiglia. Pure la cavallina (Innamorata, si chiamava) allargava i buchi del naso per la fatica. E lei pure.
Mi piace. Si, mi piace. E piace pure alla mia minchia che si ingrossa dentro i calzoni tanto che mi tira i peli incastrati tra la minchia e le mutande. mi devo muovere perché mi fa male. Così l'afferro, gli cambio posizione per fare scapolare i peli. Ecco fatto. Lei, intanto, è ancora là, sempre più incazzata. Magari la vado ad aiutare... Ma no, ma che fa? L'ha rotto, l'ha sbattuto contro la parete di mattoni di tufo della casa e ora tiene in mano il coperchio come dire: finalmente l'ho aperto.. E' così contenta che non si accorge di aver messo un piede su un pezzo del barattolo. Vedo il suo piede che si macchia di rosso, lei sente il dolore e si prende il piede tra le mani. Alza la gamba per farlo e le vedo le mutande. Sono nere pure quelle. Lei banca bianca coi capelli, gli occhi, il vestito e le mutande nere. Sono troppo sbrogliato, attisato. Ma mi devo alzare, si è fatta male, magari le serve aiuto....
Vado incontro a lei, mi presento: Tano sono, il bracciante di don Gerlando. Posso essere utile? Lei mi guarda con occhi che pare che ero stato io a tagliarle il piede o a lasciare a terra di proposito il pezzo di vetro. Mi facesse vedere, dico, forse ci vuole un punto. Lei mi guarda meglio e sembra riconoscermi, la faccia si alliscia un poco, ha deciso che non è colpa mia. Sono accanto a lei. Mi dice: mi aiutasse e si appoggia alla mia spalla con una mano stando su un piede. Poi comincia a saltellare verso la casa mentre io arranco per starle accanto e farle da stampella. Entriamo nella casupola: altro che abbandonata. C'è un divano di stoffa colorata che Mariuccia impazzirebbe, un tavolo basso con tante cose di ceramica, un paralume moderno veramente stupendo. C'è pure la musica e, miracolo miracolo, c'è perfino la tv. Ma io antenna sul tetto non ne avevo vista mai.
Saltellando si siede sul divano e appoggia la gamba sul tavolino basso. La gonna se ne sale e le scopre le cosce ma lei non fa niente per coprirsi. Io guardo, mi incanto. Lei mi richiama. Invece di guardare mi prendesse la mattola e lo spirito per favore. Mi riprendo, dico. si scusasse, dove sono? Nell'armadietto del gabinetto dice lei. Vado, cerco, ecco: alcol denaturato (ma che significa?) e poi cotone idrofilo (idrofilo? boh...). Torno nella camera del divano, lei si tiene il piede con le due mani e per farlo deve piegare il ginocchio. Così ha le cosce aperte e posso vedere bene le mutande che sino strette in mezzo alla sua fica. Vedo i peli neri, vedo le labbra grosse, spesso, sembrano montarozzi con ciuffetti di ginestre nere. Ad ogni suo movimento le mutande si serrano sempre più e la fica si vede sempre meglio. Mi siedo sul tavolino di fronte a lei. Mi facesse vedere, le dico e prendo il piede in mano. Ha un taglietto proprio sotto il pollicione. Piccolo piccolo ma fa tanto sangue. Mi alzo, prendo un poco di mattola senza spirito e pulisco la ferita, poi l'allargo un poco per vedere se dentro c'è restato qualche pezzettino di vetro, le chiedo se punge, dice di no. Spremo i bordi della ferita per vedere quanto sangue esce, ne esce ancora abbastanza. Non ci vuole un punto, è cosa da niente. Il piede e nelle mie mani, la pianta senza una ruga che sembra la guancia di una bambina, la piega che sembra disegnata da Bartolino, quello che in paese dipinge ler sponde dei carretti con le scene dei paladini di Francia.
Non so che mi prende. Lo avvicino alla bocca, comincio a leccare la ferita, sento il sapore dolce del sangue. Ma che sto facendo? Continuo a leccare, lei non si muove, mi guarda e io la guardo. Ma non tira indietro il piede. Mi sento incoraggiato, Adesso ho il pollicione in bocca, lo stringo in mezzo alle labbra, lo lecco tutto dentro la bocca. Bella madre, e che sto facendo un pompino a un dito del piede? Carezzo la caviglia, ci passo le dita sopra piano piano e la mano continua lungo la gamba, poi la faccio andare sotto e sento il polpaccio duro, il muscolo teso per la posizione, arrivo sino alla piega dietro il ginocchio. Lei, forse sta scomoda e allenta il muscolo della coscia che si apre. Adesso le ha proprio apertissime e io sempre col suo piede in bocca. Adesso lo sto leccando tutto. Che fa continuo? Ma si, continuo. La mia lingua sale piano lungo la gamba fino al ginocchio. per continuare mi devo alzare. Infatti mi alzo e mi ingionocchio tra le sue cosce. Sento il suo profumo e mi avvicino alla sua fica. Appoggio il naso e respiro il suo odore a pieni polmoni. Mi ubriaca, non capisco più niente. Sento le sue mani sulla mia testa, mi spinge contro la fica. Le metto le mani sopra le mutande, sposto il cavallo e scopro tutta la fica. E' enorme per una così piccola, Chissà quante minchie ci possono entrare insieme, penso. La guardo a lungo e lei ci mette le mani, se l'allarga. Deve essere del mestiere, forse una delle buttane che vengono in paese per la festa? Ma no siamo ad Agosto e per Santa Brigida ci vogliono ancora almeno quattro settimane, troppo presto. Però lei si allarga la fica, sposta il corpo in avanti sul bordo del divano così si può allargare pure il culo. Fammela vedere, mi dice. Resto muto. Non sono abituato a femmine così. Mariuccia non me lo chiederebbe mai di fargliela vedere. Guardarla la guarda, ma non me lo chiederebbe. Riprendo a leccare ma lei mi spinge indietro la testa. Ho detto fammela vedere, mi dice. Mi alzo, sono confuso, mi vergogno. Però apro la cintura. Sotto o le mutande all'antica, quelle bianche col buco per uscirsi la minchia per pisciare. Che vergogna, Magari si aspettava di vedermi con le mutande eleganti da signore. Ma io sono un contadino e non faccio vedere le mutande alle femmine. Ma ora mi vergogno. Ma che devo fare? Tirò giù i calzoni e le mutande insieme, ecco che devo fare. E lo faccio.
Ho una minchia che, non per cosa, ma quasi non me la merito: bella, grossa, lunga, con una cappella bella proporzionata, fatta di pelle fina e di carne bianca come quelle delle statue solo che quelle delle statue sono sempre mosce. La mia invece ora è tesa che sembra che sta scoppiando e la testa, tutta di fuori, è tutta arrossata per l'eccitazione e fa contrasto con la pelle bianca. Forse pure lei pensa che è bella e si avvicina per guardarmela. Non la tocca. Me la guarda e basta. Ma si mette proprio vicino con la bocca. Ora mi fa un pompino, penso. Macchè. Sta un sacco di tempo con le labbra che quasi sfiorano la pelle ma sta bene attenta a non toccarmi. La minchia ondeggia come la testa dei cani finti che qualche anno fa si mettevano nel porta oggetti di dietro delle macchine. Ci manca la parola alla mia minchia. Se ora potesse parlare direbbe che vuole essere leccata, baciata, considerata insomma. Ma lei niente, guarda e si passa la lingua sulle labbra sempre più rosse.
Poi si alza, si gira e si china come ad aggiustare i cuscini del divano e nel farlo mi strofina il culo contro il cazzo. Ma come gioca questa? Sarà un poco pazza? E poi quanti anni avrà? Non credo che devo finire alla caserma dei carabinieri col maresciallo Rabiti che mi fa una predica mentre l'appuntato Lo Cicero scrive il verbale di arresto....
Lei continua a strofinare il culo contro la minchia, poi porta le mani dietro e solleva la gonna. Con gesto svelto si cala le mutande o quello che resta, poi porta le mani dietro e si allarga il culo. Si, proprio così, si allarga il culo come a dirmi: ecco questa è la strada. E io che faccio? La infilo, che devo fare? La minchia entra in quel culo come se fosse casa sua e avesse le chiavi. Non deve forzare niente e quel culo a tutto sembra abituato tranne che a cacare. Forse sarebbe più difficile entrare nella fica ma nel culo va che è una bellzza. Mi dice: tu stai fermo che ci penso io. Vuole guidare lei. Tanto ora la patente ce l'hanno tutte le femmine. E guida, guida, basta che guidi bene...
Michia se guida benne, mi pare fittipaldi. Si impala da sola, si ferma, annaca il culo come fosse una pignata che qualcuno sta lavando sotto il rubinetto e la fa ruotare. Poi aspetta che la minchia si finisca di gonfiare. Le appoggiole mani sui fianchi. Mi dice: toglile, non mi devi toccare, hai capito? Ho capito, ho capito. E tolgo le mani. Mi stanco così, metto le mani sui miei fianchi e tiro un po' indietro la schiena se no mi vengono i crampi. Il risultato è che la mia minchia entra nel suo culo fino ai coglioni. Lei trattiene il respiro e si solleva un poco stringendo il culo e quasi soffocandomela. Poi comincia a fare mmm mmm mmmm che sembra una capretta che cerca le minne della mamma. Invece se ne sta venendo. Comincia piano piano poi grida sempre più forte e dice: non mi basta mai, non mi basta mai, dammela tutta a me, ora te la taglio e me la tengo dentro il culo, tu te ne vai ma io mi tengo la tua bella minchia ahh ahhhhhhh ahhhhhh... Mammamia ma com'è pazza? Le dico: non gridare che ci sentono. E lei: e chi ci deve sentire. Io sento solo a te. Dentro il mio culo. Poi si calma, torna a sedersi nel divano ma si tiene una mano sotto il culo a massaggiarsi. L'altra mano la tiene sullo sticchio e si massaggia anche quello. Io non mi massaggio niente. So solo che ho la minchia che mi sta scoppiando. Lei dice: mi vuoi vedere le minne? Non ne ho tante. E si apre la camicia. Ha minnuzze che sembrano due dolcini, piccole piccole ma con le punte grosse grosse che adesso puntano verso di me come il dito del maresciallo quando mi dice Tano, le multe le devi parare se no ti facciamo il pignoramento. Lei le carezza, si prende le punte tra le dita e le comincia a torcere, a tirare, le allunga. Poi mi dice: sborrami di sopra. E io, come un fesso: e come? Finalmente ride e dice: fatti una bella minata. Io non capisco più niente, mi metto davanti a lei, lo prendo con due mani e comincio a menarlo prima piano poi sempre più veloce. Lei avvicina la faccia alla minchia e si continua a massaggiare la fica. Ora mi sego con una mano sola e l'altra la tengo su un fianco. Mi sento napoleone prima della battaglia col cannocchiale in una mano mentre guarda il campo dove corre la cavalleria. Sento che sto arrivando e comincio a sborrare. Ne faccio una quantità che ci potrebbe mangiare un bordello sano. E lei si prende tutto sulla faccia e resta ferma con i segnali dello spacchime che le colano sugli occhi, lungo le guance. Io non so che fare, lei non parla ma si spalma la sborra su tutto il corpo. Finalmente realizzo che mi devo pulire, prendo un poco di mattola e mi asciugo alla meglio solo che la cappella si riempie di filini bianchi. Mi alzo i calzoni. Che devo fare? dico come un coglione. Lei mi guarda e i suoi occhi sorridono: te ne devi andare, che vuoi fare? Grazie. E io che rispondo? Prego, e me ne vado.
Guardo l'orologio che tengo sulla camicia sotto l'albero, sono le due e mezzo, è presto ancora. Appoggio le spalle al tronco e chiudo gli occhi. Li riapro. Ho dormito? Ma quanto? Guardo l'orologio di nuovo. Sono le cinque... altroché se ho dormito. Guardo verso la casa. Silenzio. Se n'è andata? Mi alzo, vado a vedere. La casa è vuota. Non che lei non c'è: vuota proprio: niente mobili, niente divano, niente pezzi di vetro davanti alla porta. Niente di niente. Stordito torno verso il carrubbo e guardo la bottiglia di vino vuota: ce lo devo dire a Mariuccia che questo vino è troppo pesante. Vedi che scherzi che fa....
E' ora di tornare, per tutta la strada mentre guido penso a quel culo così largo e alla mia minchia che ci ha fatto una villeggiatura di venti minuti. Ma nel sogno. Una volta tanto non maledico ne' il caldo ne' il sole. Ne' il vino.
Arrivo a casa, posteggio, entro e chiamo: Mariuccia, qua sono. Mariuccia esce dalla cucina. E' bellissima e ha un vestitino di casa tutto a fiori con le bretelline. Ha le minne sudate che a me mi fanno impazzire. Già sento la minchia che diventa di nuovo dura. Di nuovo? Ma se quello di prima è stato un sogno... Lei si avvicina e si alza sulla punta dei piadi per darmi il solito bacio leggero sulle labbra. Ma si ferma e si allontana: Tano, che hai fatto? Male ti facesti? E io: ma che dici? Vedo il suo sguardo sulle mie labbra, entro nel bagno e mi guardo allo specchio. Una faccia scura, gli occhi brillanti, un bel naso, le labbra piene sotto i baffi. E all'angolo sinistro una piccola macchia rosso scuro. Non si può sbagliare: una goccia di sangue.
Narratore