Ci sono momenti in cui più gente c'è, più sento silenzio. Quando il rumore assume un carattere indefinito e i suoni si perdono in esso senza più riuscire a mantenere la propria individualità, il frastuono si annulla. Tutto convoglia in un magma scuro, fluido e senza spigoli. Sono questi gli istanti in cui la solitudine prende il sopravvento, in cui ci si sdoppia lasciando al viso il compito di sorridere, alla lingua quello di articolare suoni, al bacino quello di ballare. L'altra parte di noi si stacca dall'involucro, sembra ricavarsi uno spazio dentro prima impensabile, come fossimo in una statua cava e sicura, dove potremmo persino giocare a palla-muro se volessimo. Ma più bello è accoccolarvisi, sdraiarsi su un pavimento immaginario e con gli occhi socchiusi liberare i pensieri. E' come avere, finalmente, un proprio tempo, una propria personalissima dimensione in cui vivere e riflettere a nostro piacimento. Il salto dal pensiero al sogno solitamente è breve. Un aggancio al passato a volte, oppure al futuro: una sensazione esterna, un'immagine che penetra la corteccia e raggiunge il silenzio. Allora ci si risveglia appena, piano, senza rompere l'incanto, ci si mette seduti forse, per guardare meglio quel raggio che ci ha attraversati, si sceglie di far scivolare i pensieri su di esso, di allungare la mano a giocare con la sua luce tiepida.
E' così che l'ho notata.
Immersa nella mia quiete segreta, i bassi che comandavano il bacino, le gambe calde e la pelle senza più contatto, ho visto un viso austero tra tanti dipinti di sorriso. Camminava spedita nel chiasso, il vassoio tondo, in acciaio satinato, ben fermo sulle mani lunghe. Indifferente alla gioia costruita di chi le si muoveva attorno, lavorava veloce, immune al caos di questo mondo.
L'ho vista perché lei non era sdoppiata. Era così, silenziosa, all'esterno. Il suo involucro rispecchiava il mio dentro. Magari lei danzava dentro, chi può saperlo. L'ho seguita con gli occhi insistentemente, lungo tutto il locale. Ho carezzato il suo andirivieni scaltro, fluido, lontano dal ritmo imposto dalle casse. Non ho smesso di guardarla nemmeno quando qualcuno, incuriosito, mi ha chiesto di lei. – No, non la conosco. Ma è stupefacente, di una bellezza magnetica.
Nemmeno ho voluto tranquillizzare il mio interlocutore con la battuta di rito, rovesciando la testa e dicendogli di provarci, di chiederle il numero. Non mi interessava. Ho lasciato intatta l'ambiguità della mia risposta e ho ripreso a contemplarla. Portava i capelli, lisci e castano lucido, raccolti in una piccola coda. Aveva una nuca lunghissima, ampia e sottile, le spalle disegnate sotto la maglietta blu scuro, braccia sottili ma non nervose, appena tese sotto il peso dei bicchieri di havana cola. I jeans slavati le fasciavano i fianchi stretti e il culo perfetto, non le scorgevo i piedi, ma son quasi certa non portasse tacchi. Nonostante questo era alta, almeno un metro e settanta di carne longilinea e sinuosa.
Tuttavia, ciò che di lei riempiva il mio silenzio non era la figura, né il portamento, ma quel suo sguardo freddo, duro e noncurante. Aveva occhi cilestrini, avrebbero sfiorato le tempie per lunghezza, se le ciglia nere non ne avessero trattenuto l'iridi davanti a sé. Gli zigomi erano alti, creavano un incavo ambrato nelle guance e tendevano la pelle rendendola insolitamente lucente in quell'atmosfera cupa. Tagliava l'ambiente con abilità, senza indugiare nemmeno un istante.
No. Non l'ho nemmeno sfiorata.
Ho seguitato a desiderarne l'ombrosità indifferente, in punta dei piedi nel mio guscio, fino a che, incapace di scorgere una fenditura nel suo distacco, son tornata a sdraiarmi in me stessa, rannicchiando appena le ginocchia tra le braccia. A sognare Te.
Madamesnob