Da quando lui è partito, lei ha tessuto instancabilmente il filo, attraverso il labirinto dei ghiacci, dei colatoi risucchiati dalle pareti lastricate di vetro.
Una specie di legame sicuro e confortante, che non ha mai cessato di tenerli avvinti sulla Terra.
Un ardore tellurico covato sotto la pelle incandescente delle pietre, il duello sfolgorante suggellato da sacro stupore.
Oltrepassata una determinata soglia e l'ultimo ostacolo, la desolazione è vivificata a tutti i livelli e la prospettiva scomposta in una moltitudine di faglie e di diedri.
Il filo si è spezzato.
Vuoto.
Due puntini sperduti nell'Universo, in mezzo a migliaia di canali intrinseci, in caduta libera verso l'assoluto destino.
Davanti a loro un castello traslucido di molli fette di neve guasta.
Non ci abita nessuno.
Frammenti di miliardi di parole con gli accenti puntati allo zenit, dialoghi solenni a spellare le dita, su muraglie valicate e insensibili.
Tra i quattro Punti Cardinali, accorre uno squarcio sterminato, nel quale la Mente si smarrisce.
Pareti trasparenti si ergono, più insormontabili della pietra dura, più tenaci delle placche lucide d'acciaio.
Freddo.
Afferra la gola di lance appuntite e sprofonda di colpo, sommerge il groviglio di nodi e straripa in una cascata liquida e silenziosa, sboccata dagli occhi.
Il Regno immobile.
Vano sia tessere ed annodare la solida tela, affinché rinciampino i loro destini.
Potrebbero risalire la vetta e bivaccare sino all'arrivo dei fiori; ma rotolano ad ovest, palpando le lastre insicure delle pareti algide, le unghie sul loro Cuore, con il respiro altrove.
Silenzio.
Quelle rughe come rovine di un tempio artico e calcinato, le frane lamentevoli a segnare il loro posto nel Mondo, dove i confini bruscamente ripiegano sull'Infinito.
Per un solo istante, il vento dell'alba, rapido e glaciale, aguzza il filo delle alte creste, staccandone al volo lampi vetrificati, che piombano sulla superficie smaltata del vasto pianoro, mentre nel Firmamento si aprono in crescendo irresistibili violini e ottoni, le porte regali sulla Primavera.
Gelo.
Il filo color del miele, luccica pacatamente nella mano.
Un sole affettuoso scioglie le membra torbide e compone con il chiaroscuro un'Opera da Tre Soldi.
Stagione di straniamento senza lustrini né morali.
Nell'ora di mezzo, l'astro cinge la fronte con una corona di piombo, gli occhi vacillano cercando la carità di un cappio, dove gli anelli del rotolo slavato hanno cominciato a sfilacciarsi, oramai fedeli alle porzioni d'ombra e leggeri nel loro peso d'umore.
Bianco.
Nei due versanti di congerie ingegnose, lembi di bambagia tribolano tra stalli scivolosi e mammelloni lattescenti; il cristallo segna uno smisurato ombrello bianco, che protegge la guardia, dal sonaglio malinconico dell'eco.
La nivea marea risale instancabilmente lungo le braccia, come una fredda cancrena inonda la corrente e bisbiglia la vita in balìa dei tempi.
Rigido.
Legati da un segmento che sta per divenire rupe; il peso trancia l'abbraccio in due emisferi ostili e inconciliabili, nel pianoro marmoreo che sussurra voce.
Un'avventura vissuta abbracciando il globo immobile, senza profusioni né ghirigorati orpelli.
Il turbine è finito, sprofondato in un nembo neutro di dardi gelidi.
Nessuno alle calcagna, alcuno all'orizzonte.
Il ritmo estatico delle pulsioni sotto il manto virgineo ed imbiancato.
Ghiaccio.
D'improvviso si scorge nei tratti dei visi, la piega invisibile e rugosa e degli occhi, il riflesso livido e mobile dell'abisso.
In un'isola lontano dalla mappa, si chinano delicatamente ad inseguire il fuso e come s'incrina il cristallo, il contatto basta a rompere lo specchio.
Nasce lo sfaldamento che squilibra il pendio e rotola, scivola nel profondo e gonfia, diventa torrente, fiume e poi mare in pena.
Acqua.
Cataclisma pomposo e ruggente in un mulinello di gorghi, immensa spirale che apre.
Flusso e riflusso che accalora e trasale.
Profusione di trasparenze elogiate come trine, cupole gloriose forgiate come cera.
L'Arcadia trionfale.
L'ultima neve di Primavera.
Rossogeranio