Stava seduto in una posizione che un po' sembrava ridicola, praticamente sprofondato sull'enorme poltrona che quasi – nonostante il suo metro e ottanta – lo faceva sparire, le gambe divaricate, i pantaloni e i boxer calati fino alle caviglie e arricciati sulle ingombranti e per me insopportabili scarpe da ginnastica, le mani a sollevare camicia e maglione in modo da lasciare nudo metà del torace e gli addominali candidi, scolpiti da non so quante ore di palestra.
Messo in quel modo, i biondi peli delle gambe intirizziti dal freddo dell'improvvisa nudità, l'ombelico che pareva un buco nero in campo bianco, bianchissimo come il latte della sua carnagione, il membro le cui dimensioni di minima visibilità tradivano un evidente imbarazzo... sì, in quella condizione sembrava, forse era, decisamente in mio potere.
Mi avvicinai sorridendo, non avere paura, volevo dirgli, quasi che io avessi i suoi trent'anni passati e lui i miei ventidue appena compiuti e lui lì a spiegare, a giustificarsi, quasi: 'No, beh, sai, scusa, è che non mi è mai successo', e l'allusione a lì sotto, a quello che non poteva né voleva nascondere, la sua nudità appena accennata, ma anche alla situazione imbarazzante, 'così non l'avevo mai fatto, con te è una cosa particolare', non era solo chiara, era pure palese, smaccata quasi, solare come l'emozione che provava e allora io lì a consolarlo.
'Ci penso io'.
Sì, c'erano volte che nella vita pensavo non di essere ma di sentirmi nel più profondo dell'io non una puttana ma una mignotta della peggior specie.
'Ci penso io', e mi dicevo, guarda guarda, ha parlato Marilyn Monroe o Moana Pozzi e chissà perché mi paragono a due morte, forse perché un po' ero anch'io di un altro mondo, un mondo che in realtà non esiste...
'Ci penso io', e lui, bello, biondo, simpatico, quel che si direbbe proprio un gran bel ragazzo ma laggiù imbarazzato, emozionato, a disagio, col pistolino piccolino piccolo per via della situazione.
'Ci penso io', e mi avvicino, gli sfioro una guancia con due dita come aveva fatto lui quando ci eravamo conosciuti per le ripetizioni di latino dell'università, la mia croce.
Dopo nemmeno mezz'ora che ci eravamo incontrati grazie a quel mio avviso comico, AAA cercasi prof disperatamente Latino II insuperabile aiuto, dopo che mi aveva confessato di avere riso mezz'ora nel pensarci, dopo che era venuto a casa mia, mi aveva parlato un po' di sé, classico ricercatore ultratrentenne e fidanzato, ma che non può sposarsi perché senza una lira, e poi aveva sentito dalla mia voce le mie principali difficoltà con il latino e infine mi aveva sfiorato una guancia con due dita e aveva detto solo due parole, 'liscia liscia', due parole che a me erano bastate per capire che lui capiva, che a me erano bastate per comprendere l'uomo, l'anima, una bella persona oltre quello che si sarebbe detto un bonazzo. 'Liscia liscia', mi aveva detto e si era portato le dita al naso, 'e che bel profumo' e sai quando ti si tuffa il cuore verso lo stomaco e più giù e poi risale come fossi sulle montagne russe, questa era stata la mia sensazione, perché quello non era un modo per provarci, non era un ammiccamento, uno scherzo, uno sfottò, quella era una dichiarazione di amore, no non direi di amore (troppo poco tempo era passato, ma l'amore nasce solo col tempo?), ma di grande, enorme delicatezza, di un'anima che si accosta ad un'altra anima; e così io mi ero accostata a lui in quel momento, sfiorandogli la guancia con due dita e ripetendo le sue stesse parole.
'Liscia liscia'.
Le mie dita erano morbide di crema, lunghe e affusolate scesero giù per il collo e lo guardavo con un sorriso mezzo malizioso e mezzo innamorato, 'non aver paura', gli raccomandavo, 'sarà bello' e notavo che non dovevo fare altro, stando a cavalcioni, le gambe accavallate sul bracciolo della poltrona, che fargli sentire il mio odore, il mio profumo, il colore del mio sesso attraverso gli strettissimi e attillatissimi ed elasticissimi pantaloncini da ciclista, non dovevo far altro che fargli sentire l'elettricità del mio corpo attraverso quelle due dita che scorrevano, sfiorandola appena, lungo la sua pelle, sempre più giù.
Reclinò il capo all'indietro, chiuse gli occhi. Cominciava il risveglio. Solo con il mio sguardo, solo con i miei occhi, cominciava a farsi vedere, a muoversi, ad esistere.
Ero giù, verso l'ombelico, ci giravo attorno giocherellando col dito indice e sentendo la pelle fredda sotto il polpastrello bollente. I muscoli erano contratti, duri. Lambii la peluria rossiccia, presi tra due dita tre o quattro pelucci e li attorcigliai, poi affondai la mano giù, nel cespuglio, e la ritirai su e guardai di sottecchi.
Era sveglio.
Lo presi fra tre dita, stava su da solo, ormai. Era grosso, così almeno mi sembrò come prima mi era apparso minuscolo. Grosso e fra le mie dita e poi nel mio palmo crebbe ancora, come un palloncino che si riempie di aria. Ero io la sua aria. Gli piaceva quel che gli stavo facendo, non poteva nasconderlo.
Lo impugnai, lo mossi leggermente verso l'alto e poi verso il basso, ma la posizione era scomoda. Mi guardai in giro: non tutte le posizioni andavano bene. Mi accosciai sulla moquette, mi avvicinai e sentii odore. Odore di maschio, odore di lui, odore di sesso.
Iniziai a fare su e giù lentamente, piano piano. Vidi sbocciare il suo glande, la testa del suo pene mi apparve enorme, nuda nuda e violacea per com'era. E l'odore. L'odore si fece ancora più intenso, inebriante, pensavo a Latino II, a come Giovanni mi aveva conquistato parlandomi di atmosfere rapite, di quei poeti romani che inneggiavano al vino che ubriacava al solo odore, di Bacco e dei Baccanali e non mi era sembrato più tanto orribile, Latino II, perché me ne parlava lui, con la sua voce calma e precisa...
Mi aveva rapita, con quelle parole e quando, a conclusione del corso, avevo superato la materia con un bel trenta, l'avevo invitato a cena e volevo pagarlo, ma lui mi aveva detto che non voleva soldi ma solo un bacio, uno solo, e l'imbarazzo ci aveva aggrediti, un bacio senza lingua ma un bacio e io avevo sentito la testa girare e poi precipitare.
Bacio era stato e bacio vero, intenso, profondo e subito dopo lui aveva detto scusa, non volevo, non è giusto, la mia ragazza e io avevo detto no, tu scusa me, e alla fine tra una scusa e l'altra, senza altri baci, l'avevo fatto sedere in poltrona...
In poltrona era stato diverso. Si era arreso, aveva preso parte al gioco, si era calato i calzoni e io adesso calavo a bocca aperta su quella spada di carne, la prendevo in bocca e sentivo il corpo di Giovanni contrarsi, dalla punta dei piedi fasciati da quelle orribili scarpone da ginnastica alla punta dei capelli.
Restai solo un attimo con il suo membro in bocca, poi lo lasciai libero e di nuovo affondai il colpo, sentendolo prigioniero delle mie labbra, della mia lingua, del mio palato e feci su e giù con la bocca, dentro la bocca, spingendomi fin dove potevo senza soffocare, senza arrivare alla gola ma sentendolo profondamente, molto profondamente.
Era in mio potere. Lo guardavo da sotto, lo toccavo con una mano, insinuandomi sotto la camicia, sentendo i bicipiti muscolosi ma rilassati per il godimento, palpeggiando i suoi capezzolini turgidi e con l'altra mano lo menavo, lo masturbavo accompagnando il movimento della bocca. Adesso sprofondavo tra le sue cosce spalancate, ma non tutte le posizioni vanno bene, mi ripetevo. Lasciai un attimo, mi allontanai e lo guardai meglio e lo vidi inasprirsi nell'espressione del volto, come se mi volesse dire, ma giusto ora te ne devi andare, eppure il gioco era quello, chiamiamolo gioco...
Il primo fiotto caldo schizzò verso l'alto raggiungendo un'elevazione modesta. Ma fu il secondo, quello che si fiondò ad almeno un metro di altezza, mentre lui urlava di piacere e io continuavo a fare su e giù energicamente con la mano e a vedere il suo sperma che, fatta una curva elevata, ripiombava sulla sua pancia, sul maglione, sulla camicia inutilmente tenuti su proprio per evitare di sporcarsi.
Ma non gli fregava più niente, di sporcarsi o di sporcarmi, mollò maglione e camicia e mi prese con entrambe le mani per le spalle e non mi forzò proprio, andai giù io, ad assaporare quel liquido caldo che avvolgeva il suo glande, lo presi in bocca e lo sputai sul suo pene e poi lo ripresi in bocca, ingoiandolo e non trovandolo affatto disgustoso. Solo strano, sì, era strano. Diverso dai tanti che prima di lui avevo assaggiato.
Mi rimisi su, rimanendo sempre in ginocchio. Avevo sperma sul viso, tra i capelli lunghi, avevo sporcato pure la canottierina dalle bretelline quasi invisibili per quanto erano sottili e me la tolsi d'istinto, mostrai le mie tettine rotonde, lui sorrise ma guardò verso il basso, verso i calzoncini da ciclista neri. Togliti pure quelli, diceva quello sguardo.
Provavo un serio imbarazzo, lo stesso identico che aveva provato lui fino a qualche minuto prima.
Togliteli pure, diceva quello sguardo, ma io esitavo. Sotto non portavo nulla, da vera puttana, nemmeno l'intimo sexy, nemmeno il perizoma.
Sorrisi e decisi di obbedire, gli diedi le spalle e scoprii per prima cosa il sedere tornito, rotondo, bianco. Esitai ancora, mentre sentivo su di me il suo sguardo compiaciuto e ancora eccitato nonostante il recentissimo godimento, esitai e poi, sempre dandogli le spalle, tirai giù anche il resto, tirai fuori un piede, poi l'altro, rimanendo senz'altro che la pelle addosso.
Feci una torsione del busto, girai la testa in modo da intercettare il suo sguardo.
Lui sapeva. Sapeva già, ma fa sempre un certo effetto, la prima volta che lo vedi con i tuoi occhi, che vedi ciò che non credi possa esserci, se guardi il resto, se vedi la donna nella voce, nel viso, nei movimenti, nelle curve, persino nella grazia.
Piantai bene i piedi, i talloni per terra, divaricai un po' le gambe, poi mi girai e quello che non potevo nascondere, quello che avevo trattenuto a fatica, ingabbiato dall'elasticizzazione dei calzoncini da ciclista, si mostrò. Piccolino per come era, ma diritto e teso come non poteva non essere, data la situazione.
Giovanni stava sempre lì, sprofondato, il pisello mezzo moscio, anche se si sgonfiava pianissimo, come un pallone con un foro piccolissimo. Mi fece cenno con le mani, avvicinati, voleva dire.
Ero nudo dalla testa ai piedi, adesso, e pensavo di essere nudo anche se tra di me e con me parlavo al femminile da almeno sette anni, però in quella situazione, di fronte a lui, che era il mio prof, era un po' diverso. Non ci era mai successo: né a lui né a me.
Fece ancora un cenno con entrambe le mani, avvicinati, insisteva.
Più di come ero vicino, non potevo andare. Rischiavo di incastrarmi con le sue gambe e i suoi pantaloni, rischiavo di precipitargli addosso. Avrei voluto, ma non volevo. Lui strinse le gambe, mi fece spazio, io allargai le mie, lui si mise a sedere più eretto e si ritrovò con un'altra erezione a un palmo dal naso.
Vidi la sua testa bionda sparire sotto il mio piccolo seno e la mia pancia, sentii una sensazione calda sul mio ventre.
Non ebbi il tempo di chiedergli che fai, la classica domanda inutile, che mi sentii prendere per i fianchi. Le mani erano gelate ma mi sembrarono due maniglie di marmo cui mi sorreggevo e che mi sorreggevano.
Lo prese tutto in bocca: lo avevo piccolino, non ci voleva molto. Lo tenne fra le labbra, circondandolo e allacciandolo e roteando la lingua attorno alla piccola asta. Si vedeva che era il primo pompino che faceva nella sua vita, però non demeritava e poi in quella situazione non andavo troppo per il sottile.
Un turbine di pensieri mi avvolse la testa, mentre vedevo la sua chioma bionda avanzare e arretrare ritmicamente, facendo su e giù dal mio ventre.
Gli poggiai le mani sulle spalle, lui avvertì il contatto e cercò il contatto con un'altra parte del mio corpo: staccò le mani dai fianchi e risalì, mi toccò le tette, le massaggiò, le palpeggiò con grande delicatezza, con un movimento circolare, lentissimo.
Adoravo quando me le toccava chi volevo io, avevo scoperto cos'ero in realtà in questo modo, perché mi erano spuntate da sole, con la pubertà non erano andate via e mi era sempre piaciuto toccarmele, fino a quando un altro ragazzo con la testa bionda non l'aveva fatto con una tale dolcezza che ero venuto nei pantaloni dopo averlo lasciato fare per una buona ventina di minuti...
Adesso non si trattava di una ventina di minuti. Molto meno.
'Amore – dissi a Giovanni cominciando ad ansimare – amore, guarda che se continui così vengo...' ma lui non si staccava, né dal mio pube né dalle mie mammelline, 'amore', lo ammonii ancora senza convinzione, con voce flebile e un attimo dopo gli venni in bocca, in una maniera favolosa, mugolando come una cagnetta sbattuta da un cagnone enorme.
Lui se lo tenne in bocca fino a quando non fu sgorgata l'ultima goccia di seme.
Poi mollò il mio pistolino ormai mezzo moscio e mi fece inginocchiare. I nostri visi adesso erano l'uno di fronte all'altro, a distanza insignificante. Lo guardai, lo trovai bellissimo.
Mi sorrise dolce, mi prese due dita e se le passò sul volto, la stessa cosa fece lui sul mio visetto efebico.
'Liscia liscia', sorrise, poggiandomi un altro delicatissimo bacio sulle labbra.
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Dedicato alla trans che per essere stata solo guardata qualche momento da un pezzo grosso tanto scandalo ha destato nel mondo dei 'normali' di destra e di sinistra, un mondo per il quale i trans sono ammessi solo se fanno commercio di se stessi.
Eva Blu