19 Aprile 2007
Intingo il pennino nella china e scrivo, col mio stesso sangue, nero di furia letale e di amarezza recondita. Mi scorre bollente nelle vene viola, lievitanti nervose da sotto la pelle.
Scrivo questa mia prima pagina di diario su carta intonsa e grezza, incespicando fra i residui della maldestra lavorazione, graffiando, sapida nella desolazione, l'odore dello stantio.
Il silenzio assorda i miei timpani, tamburella la materia grigia che mi fuma disgraziata nel cranio dolorante.
Tossisco il raspo amaro che mi solletica la gola, risultato dell'insana malevolenza per il mio corpo.
Incido parole taglienti, stringendo la stilografica con la mano rattrappita, indolenzita, narcotizzata dall'abuso.
Scolpisco marmo informe e picchietto frasi come fossero fattezze apollinee, con lo scalpello a guisa di pugnale d'onice primitivo.
Fluido magmatico incendia le mie ultime ed intime paure, cocendo carni lacere d'amore, traghettando mali oscuri, solcando profonde scie di ricordo indomabile.
Mi sento invasa da un reflusso esistenziale che non posso controllare, frustare, inchiodare, rendere silente e intrappolare.
Il sentimento, fradicio di lacrime, mi ha schiavizzata, restituendomi un essere ossesso di lui ed irriconoscibile al mio piglio.
Briseide di Achille, piegata al servizio semidivino, sono e mi chino in questa oscura tenda, leccandogli materna le ferite della battaglia, concedendomi senza remore al suo desio funesto ed egoistico.
Scoprirò il suo tallone, un giorno, lontano, quando di Agamennone sarò bottino e lui mi rivorrà e mi otterrà, di nuovo, rimettendomi al suo incontrastato imperare, come ogni schiava d'amore che si rispetti.
Legarlo a me, devo. Mio possesso, mia dote, mio patrimonio: tale lo pretendo. Infiacchirlo nel cuore è mio imperativo solenne. Schiavi l'uno dell'altro, nella condizione fosca ed amara, nel favore vicendevole, docile ed eterno.
La nera maestosa, fautrice di incantesimi d'amore, sfrega amuleti e svela l'arcana ricetta.
Nell'oceanica Cuba lancia proverbiali comandi, sentenziando autorità dalle rughe percorse dal sole.
Biascica in uno spagnolo imperfetto perentori uffizi, fiatando tabacco dalla bocca sdentata.
Fonde l'idolatria cattolica coi molteplici rituali africani, partorendo l'affascinante culto della Santería.
Una mela, mi ordina di procurarmi. Frutto del peccato, pomo della discordia, in essa sembra risiedere il segreto dovizioso dell'amore.
Priva di ammaccature, gialla, lucida ed odorosa, il frutto incantato viene immerso in un pentolone traboccante acqua in ebollizione.
La mela si agita frenetica contro le pareti del mastello, raggrinzendo la buccia puntinata e galleggiando fra i flutti vaporosi.
La sede magica della sacerdotessa d'amore s'ingravida di un accaloramento umido e di un profumo delicato.
Il frutto si lascia ledere in tagli dolorosi, fiottando lacrime schiumose che vanno a colorare l'acqua di un rosato prepotente.
L'estrazione è magnificente. Con la mano nodosa, la donna afferra il frutto fumante per il picciolo, lo appoggia su merletti inamidati, fra le statuette della Virgen de la Caridad del cobre e Ochún.
Mi porge un coltello affilato e arrugginito, invitandomi a pelare il pomo e a pensare al mio amato.
Socchiudo le palpebre e penetro la buccia ammorbidita dalla cottura.
Penso ai suoi occhi furbi, al suo naso importante, alla sua bocca sapiente. Mi ardono i polpastrelli, per il frutto scottante e per il triste rammentare.
La sua voce mi fruscia dietro le orecchie, carezzandomi delicata in un gioco di traguardi incresciosi con l'afrore del rito.
Lo sguardo vigile e severo della maga mi porta ad accelerare l'operazione.
Ultimo la pelatura a fatica, perché il mio cuore si sta scorticando assieme alla pelle ardente dei palmi.
Il rito prevede che strofini il mio profumo sul frutto denudato. Estraggo una boccetta di vetro colorato dalla borsa, stappo l'essenza e stillo il liquido odoroso sulla polpa biancastra.
Il calore della bollitura, a contatto con l'alcool del profumo, screpolano e generano una patina spugnosa che, a dire dell'esperta, rappresenta il sangue dell'amato.
Sento il cuore cavalcarmi sotto il seno, esplodermi nella cassa toracica, mentre temo anatemi fatali e gioisco dell'illusoria riuscita dell'incantesimo.
Il mio zibaldone di follie imperanti viene stemperato dall'obbligo di effettuare la finale e decisiva fase. La maga mi porge una spilla appuntita. Devo penetrare quel che resta della mela, esclamando a gran voce una frase performativa.
Afferro lo spillone, buco il frutto con l'estremità ultima e pronuncio la preghiera pagana:
- Atraviesa al corazón de mi amado! -
Trotto sul pulmino verde e bianco, con la gonna appiccicata alle cosce e la pelle nuda incollata alla plastificazione purpurea del sedile. Guardo le vesciche sui polpastrelli e sorrido della mia ingenuità.
Briseide è corsa da Cassandra, colei che vaticinava verità inutilmente, perché, per punizione divina, non poteva essere creduta.
20 Aprile 2007
Non scrivo col sangue, ma col sorriso, nonostante le mie mani siano garzate e dolenti.
Lui mi ha cercata, dicendomi di volermi parlare.
Che esistano Cassandre oltreoceano, non saprei.
Che ogni donna viva un periodo della propria esistenza da Briseide, ne sono convinta.
ElisaN