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Racconto n° 2833
Autore: LaDispettosa Altri racconti di LaDispettosa
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I miei strumenti di piacere
Non sempre la gomma e il lattice possono dare sensazioni piacevoli in determinati usi.
E oltretutto serve un utilizzo costante per riuscire a tirar via quell'odore sgradevole di plastica.
La prima volta che mi venne in mente di usare un ortaggio fu quattro o cinque anni fa.
Era sabato mattina. Un sabato mattina di giugno, uno dei primi giorni di vacanza dalla scuola. Io e mia madre aspettavamo alcuni zii per il pranzo e lei, mentre rovistava energicamente nell'enorme pentola del sugo che le schizzava di continuo sul grembiule bianco, mi chiese di andarle a fare alcune commissioni.
Partii mio malgrado con la lista in tasca.
Insalata.
Vino, due bottiglie.
Pesche, mele.
Melanzane e zucchine per il contorno.
Il fruttivendolo a pochi passi da casa era gestito da un anziano signore che tutti chiamavano Gino anche se, chissà perché, l'insegna della bottega indicava: - Da Fernando, frutta e verdura - .
Appena varcai la porta, subito il profumo delle spezie, tutte divise in piccoli cestini ordinati su un tavolo, mi arrivò violentemente alle narici.
Respirai a fondo.
Mi piaceva il profumo del timo e del rosmarino. Strofinai tra due dita una foglia di salvia e avvicinai la mano al viso. Ricordo che l'aroma sui polpastrelli rimase per qualche ora e mi accompagnò fino a casa.
Gino alias Fernando serviva un'anziana signora che controllava che le sue banane, una a una, non avessero ammaccature. Presi qualche mela, e cinque o sei pesche che richiusi in un sacchetto e posai sulla bilancia. La zona della frutta, poi, era così colorata che invitava solo a guardarla. Le arance ammassate nelle cassette di legno e le fragole, nel loro rosso acceso in quei cestini di plastica azzurra, sembravano aiuole fiorite.
Presi un altro sacchetto ed infilai un guanto. Le zucchine erano di un verde scuro, con toni più chiari alle estremità. Ne presi qualcuna tra quelle più grosse e lisce, cercando e rovistando tra la catasta posta in salita.
Poi le melanzane. Il loro colore mi attirò subito appena le vidi raccolte in una grossa cesta addossata alla parete. Quel viola scuro e lucente rifletteva la luce gialla del neon creando infinite sfumature. Credo di essere rimasta a guardarle per qualche minuto, una per una, mentre Gino alias Fernando accompagnava fuori una cliente per mostrarle le albicocche succose che gli erano state consegnate proprio quella mattina.
Seguii con gli occhi la forma di ognuna di quelle melanzane, saggiandone le curve morbide e rotonde della base che si stringevano e si assottigliavano verso l'estremità. Tolsi il guanto e ne toccai una, pensando quasi di ricevere un suo tremito, un sussulto al mio contatto. Invece la melanzana restò lì dov'era, ferma e immobile, disponibile e compiacente nel farsi toccare.
Con le dita accarezzai la pelle tesa e liscia.
E me ne innamorai.
Ne misi qualcuna in un sacchetto, alla rinfusa, senza pensarci troppo. Poi rovistai un po' finché non trovai quella giusta per me. Era lì che mi guardava, mi invitava quasi con quella sua morbidezza apparente. Tesa e dritta, con una leggera curva alla fine. Rotonda e levigata, lunga più o meno una ventina di centimetri. La posai sopra a tutte le altre e pagai il conto. Mentre tornavo verso casa la guardavo attraverso il sacchetto trasparente e me la immaginavo dentro, a lambirmi le pareti del ventre per arrivare fino in fondo.
Mia madre era in soggiorno, gli ospiti erano già arrivati.
Posai il sacchetto sul tavolo e la mia melanzana rotolò fuori cadendo a terra. Mi cercava.
- Devo iniziare a tagliarle? - gridai a mia madre attraverso la porta.
- No, puoi anche aspettare. Tanto ci vuole un attimo per cuocerle - .
Credo di aver sorriso.
Con la melanzana chiusa nel pugno mi rifugiai nella mia stanza. Chiusi a chiave la porta. Tolsi i pantaloni e li lasciai a terra, poi sfilai le mutandine.
Mi sdraiai sul letto di schiena e presi la melanzana tra le mani. Ne leccai la punta, scendendo con la lingua fin dove la curva si faceva più grossa e generosa, e poi risalii su lentamente. Ne misi in bocca l'inizio e succhiai accarezzandone la forma con le labbra. La bagnai con la saliva e la passai sui seni, lasciando una scia di umido vischio mentre la portavo verso il ventre e tra le cosce.
La appoggiai sul clitoride già gonfio ed ebbi un sussulto.
Era fredda.
A tenerla in mano non me ne ero accorta.
Sentivo la superficie liscia come seta aprirmi le labbra e cercare l'entrata. Spinsi un po' con le mani e la punta entrò dentro.
Senza fatica. Anche lei mi cercava.
Spinsi ancora e la sentii incurvarsi contro le pareti, lambirmi la fica, prenderne la forma e aderire al mio interno.
Dentro la sentivo ancor più grossa di quel che mi era sembrato.
Un gemito mi uscì involontario dalle labbra.
Spinsi ancora e anche la parte inferiore, più grossa e rotonda, così larga da non riuscire quasi a tenerla tra le mani, entrò dentro.
Sentivo la pelle lacerarsi, la fica aprirsi.
La sentivo riempirmi mentre la tiravo fuori per poi calcarla ancora. L'ho pressata e premuta verso di me finché tra le mie dita non ne è rimasto che un piccolo appiglio.
Un colpo.
Un colpo ancora.
Mi è sembrato quasi che avesse preso vita mentre vibravo per l'orgasmo. Che si muovesse, che godesse con me al mio interno. Che, senza il mio aiuto, si incuneasse tra le labbra furiosamente e arrivasse in fondo per raccogliere il piacere.
Senza stancarsi.
Senza venire e schizzare sperma prima del tempo.
Sempre fiera, orgogliosa della sua consistenza.
Tirandola fuori fili bianchi ne seguirono la scia andando a finire sulle lenzuola appena cambiate.
Mi rivestii in fretta e buttai fuori la testa dalla stanza prima di tornare in cucina con quel mio nuovo e insolito strumento di piacere.
La misi sotto il getto dell'acqua fredda per qualche minuto, riconsegnandole pian piano l'uso a cui era destinata.
La strofinai con le dita e mi sembrò quasi di masturbarla, tenendola stretta nel palmo della mano e lavandola per tutta la lunghezza fino in cima.
Fu lì che ridiventò morta.
Inanimata come l'avevo conosciuta.
Il suo colore viola aveva un bel contrasto sul bianco lucido del tagliere, e quasi mi angosciò sapere che l'avrei di lì a poco mangiata.
Appoggiai la lama lucida del coltello sulla pelle tesa e con un colpo secco, facendo leva sul polso, le staccai di netto la punta, che rimase lì in bilico a dondolare incerta per qualche secondo, poi, rotolando, finì a terra.

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