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Racconto n° 2842
Autore: ElisaN Altri racconti di ElisaN
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29 agosto 2005
Dicono che le donne superino qualsiasi tragedia, ma che affondino per amore.

Quel 29 agosto 2005 il sole splendeva furioso nella piccola e concitata città. Le adolescenti firmate Margiela e le meno giovani avvolte in Chanel, danzavano sotto gli antichi portici, a due passi dai rigogliosi giardini Estensi.
Io ero vestita di un'abbronzatura cioccolato fondente, brillantata da goccioline sterili di sudore fresco.

Lo incontrai, dopo anni, con la camicia sdrucita e abbandonata sul jeans informe, in un angolo d'Inferno, interdetto alla borghesia feticcio della dolce medina lombarda.
Un'occhiata bastò per capire che sarei stata sua. Per sempre.
Con l'odore fiacco di piscio del clochard e le cantilene elemosinanti della zingara: preludio ideale a quella che sarebbe stata la mia guerra da mercenaria solitaria.
Un fulmine fittizio, quel pomeriggio, mi squarciò il cuore, riducendolo in brandelli fetenti; m'incendiò i desideri inascoltati, mi consumò le viscere, mi cauterizzò l'epidermide.
Sulla pelle porto ancora cicatrici solcanti, dolenti, infette.
L'ustione d'amore è invisibile agli occhi profani, ma se ne legge il codice segreto nell'anima.
Che sia inciso a scalpello o sia a rilievo in braille, non esistono medicamenti, cure o palliativi.

Amare è il peccato più grande, ma l'unico che meriti il Paradiso come ricompensa.
E si fa bene del sesso solo per amore, il resto, è prestazione.

Lui era profumo di nocciole tostate, succo di carnosi limoni, lievito di pane fumante.
Sapeva di caramello bruciacchiato, di latte appena munto, di biscotti di pasta frolla.
Lui era il canto del gallo all'alba, il richiamo dell'arrotino del paese, lo schianto dell'onda contro lo scoglio.
Sapeva di pioggia sottile d'estate, di polpa fragrante di pesca, di fuoco solare al tramonto.
Lui era il crepitio della legna nel camino, i fiocchi di neve di gennaio, il sorriso di un bambino.
Sapeva di vino novello, di terra bagnata, di brezza salmastra.
Lui era il salice piangente nel mezzo del cortile, il calore di un uovo appena covato, il tasto incantato di un pianoforte.

Rappresentava la mia semplicità quotidiana, la completezza dell'anima mutilata, la passione di vivere.

Ma quando si combatte da soli, la guerra la si è già persa in partenza.

L'inaridito cuore mistifica alibi perentori.
Un artiglio nemico scortica le interiora intorpidite.
L'anima sanguina emofiliaca.
Livori accesi cerchiano di nero gli occhi.
Lacrime pesanti annacquano iridi stanche.

I nostri ritratti si sono confusi, in un gioco eternante di fotogrammi sovrapposti, in un naufragio indefesso dello spirito.

Lui ha inseguito la sua chimera di libertà, io la mia utopia di appartenergli.

Fummo bestie iraconde in una nuda notte, rifiorita per le nuove stagioni.
Squarci di luna adamantina rischiararono le nostre bocche colanti di saliva, di umori, di sperma, di sangue.
Le nostre carni si fusero in ancestrale richiamo, contagio morente disfece le istanze accigliate.
Una radice dolente s'annodò nei ventri.
Ci abbeverammo egoisti delle nostre solinghe produzioni, esacerbando il fetore vendicativo che ci raspava le diramazioni sanguinolente.

Ma ora recitiamo la viscida nenia alle orecchie sature del Pudore.
Ci chiniamo piangenti al simulacro che edifica la Passione, aspergendo di sale liquefatto il mantello frusciante.
La baldanza testarda ci interdice il transito presso Rispetto.
Agghindiamo di corolle variopinte l'incessante Questua.
Presso il Desio infuocato incolliamo le nostre labbra di pomice grezza, di argilla rappresa.
L'insindacabile Tempo ed il celeste Fato ci trasformano in annaspante sterco improduttivo.

Camminiamo l'uno sull'altra, sventrandoci in particole, parcellizzandoci in liquame pestilenziale.
Illusi e stolti, non vi sarà mano porta in nostro soccorso.

E mentre egli rinnoverà l'orazione a Pietà, io implorerò Satana perché lo liberi dal giogo dell'essere suo goffo e fedele tirapiedi.
Ma inforcherà un mesto sentiero di Abbandono, con quel malsano piglio che solo effimere notti e fulminei gemiti gli regalò.

Oggi ci è ancora consentito stringere l'ultimo pingue pugno di terra, ingrassata da noi e dal nostro Risentimento.

La mia Vitalità screziata e fascinosa, pulita e pura si sta frantumando come abaco ed echino esposti alle ire funeste della natura e, al cospetto della severa Distruzione, ho chiamato a testimonio la nostra alcova, ove le pareti ridondano di pianti ed il talamo scricchiola d'insonnia.

Sola, in slanciate compulsioni terrene, detergerò i piedi di Amore. Di fronzoli ne agghinderò i riccioli. Di baci ne cospargerò la faretra carica e l'arco teso.
E quel dardo infuocato lo sfilerò abile dall'arma, prima che lo scocco sortisca casuale.
Lo stringerò in una morsa decisa.
E nel cuore del mio amato lo conficcherò, con Violenza e Prepotenza, con Risoluzione ed Ostinazione.

Amare è il peccato più grande, ma l'unico che meriti il Paradiso come ricompensa.
E a lui voglio che venga riservato il Regno dei Cieli.
E si fa bene del sesso solo per amore, il resto, è prestazione.
E da lui vorrei ricevere un fallo incantato dalla mia cavità. Un membro caldo e danzante.

Dicono che le donne superino qualsiasi tragedia, ma che affondino per amore.
E vorrei che lui affondasse, come me.
Zattera marcia e monca.

Dell'aroma del caffè, del lamento dei gatti in amore, del rosa brillante delle gerbere, vorrei che lui ne cogliesse la sensualità.
Del profumo del bucato, del ronzio di una zanzara, dell'indaco dell'arcobaleno, vorrei che lui ne avvertisse la morbidezza.
Il mio sesso è fatto perché il mio amato ne respiri l'essenza, ne ascolti la musica, ne osservi il plasmo, ne percepisca l'umidità, la profondità, la voracità.

L'amore mi ha resa vulnerabile. Triste, stanca, inquieta.
Ma capace di assorbire ogni energia cosmica, ogni afflato divino.

Mercenaria solitaria, arruolata il giorno 29 agosto 2005.


ElisaN

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