Atto primo.
Sono le mie dita monche a scegliere nel buio della tasca uno stralcio di spartito qualsiasi.
Vorrei recitare qualcosa solo per te, ma l'ho dimenticata.
Come una mongola incapace di muoversi, sulla quale le formiche hanno trovato dimora tra le pieghe dei Sensi corruttibili e dei Sentimenti superni.
La platea ampia occulta un campo disseminato di teste.
I posteri di un teatro di battaglia, con il faro dal candore frigido a segnare i corpi trafitti da una melopea solenne e virtuosa, che forse mi appartiene.
Ora sono così, un tessuto vocale sciolto e consapevole.
Si rompe il fermacarte e la piantana giace.
I riflettori irradiano la tua figura asettica, impudente e tutto è quieto.
Silenzio.
Azzardo il tuo nome.
Il treno lento sta trattenendo il fiato ed attraversa ramati deserti.
Ecco la meta, non è lontana!
Nell'iconografia della catacomba, sono l'Araba Fenice che ricompone il diario.
Piove l'applauso.
Graffiano sonore e pesanti le spine di rose appassite sulle mie gambe.
Come lame appuntite di coltello, ti domanderò se ho vissuto troppo tra la solitudine dei boschi e nei regni incantati delle fate.
Stordendo l'anima e la mia cera sull'orlo di uno spiffero a forma di proiettile che ti ha centrato, sorpreso ed abbattuto.
Come te ho cantato, sognato e sofferto.
Rincorrendo le silfidi lussuriose attraverso palchi bellissimi, sono sfuggita ai frastuoni che m'inseguivano, nelle notti senza nessuna stella.
Ti ho cercato dappertutto, basando le mie speranze nella cripta delle fondamenta delle tue spoglie.
Col tuo germe ho addolcito la terra dura ed abbeverato la mia Passione.
Ho nutrito la mia coda svolazzante vestita di niente, con un velo d'aria tinto d'indaco azzurro.
Affascinata dal malefico genio che geme e urla pietà per chi ha l'animo più forte, strappo l'unico geranio ai piedi della gran lastra di pietra, per scagliartelo addosso.
Come un violino sdilinquito e scordato.
Assorbo la tiritera del tuo pentimento, proclamando forte la virtù appassita in un ingiallito bouquet di fiori d'arancio.
Che il pendolo si arresti alla venticinquesima ora e che nessun antiquario svenda il connubio!
Il privilegio della tua traccia resterà solamente una concezione.
Senza logica nè prove.
Hai sentito la notte?
Odora d'idrogeno dalla formula melensa e stanca.
C'è il rischio che tu possa esserne colpito, vinto dal soffio logoro e dai suoi ritorni.
Oltre la tenda lucidi millepiedi stanno protendendo ciglia artificiali.
Questa volta non sbavo il rossetto ed immobilizzerò il tempo, nella parodia perenne di una fallace distinzione.
- Baciami piano - .
Come fosse l'ultima volta possibile.
Con la tua testa immobile densa di sangue.
Stasera indosso per te un vestito di candido pizzo bianco.
Impacchettato a sudario.
Inverso al tuo.
L'abito del boia ha sempre il sapore della cenere, residuo di una violenta fiammata divina.
Per te io non rischio la testa, né la vita.
L'ansia è scomparsa.
Le voci tacciono.
Rimango sola sulla pedana che s'inclina come un piatto da svuotare.
Frammenti di pensieri roventi mi colpiscono con una scarica di versi estemporanei.
Cerco disperatamente di ancorarmi al tuo petto, ma la pelle è liscia come una lastra di vetro liquefatto.
Immagino lo scrigno che ti scivola dalle mani, e versa il contenuto.
La cipria gialla sale nell'aria, come polvere d'oro della foresta secca di Dunarobba.
Sei davvero perduto.
Con gli occhi screziati di luce trasformo la mia pretesa, in una carcassa d'immense sequoie e di misurabili apidi, pronta a punirti ed intrappolarti.
Il pantano addosso in un acquitrino nero che snerva e buca l'oblio.
L'esalazione del Senso che brucia ardente nell'angolo del tuo emisfero sommerso.
Sì, ho ancora una camera per te.
La voce vacilla per diventare patina spessa e lo sguardo, una cataratta lattiginosa e rossastra che vela i miei occhi di porcellana rotta.
Ti sussurro accanto con le cosce trasparenti ed allungate, dal profilo d'eucalipto tasmano.
Tu non dovrai mai pronunciare il mio nome.
Rimarrai a guardarmi, con la luce spenta dei tuoi capelli incolti.
La matassa corvina che fluttua e riempie lo spazio, l'escrescenza di te che mi appartiene.
E mi accompagna.
Il mantello di lana scura che affoga nell'intervallo che io ho scelto, attraverso mille congetture perfette, ficcate nella tua coscienza inebetita.
Gli strati scottano tra le mani e disegnano una scossa epilettica di delirio.
Con le cellule rovesciate cerco l'interruttore per spingermi oltre la soglia del tuo trotto.
Frenetico, ardente.
Fammi andare via dissennata e posseduta!
Redimi padrona di schiacciare gambe, braccia e petto sotto gli zoccoli di legno.
Voglio impantanare il tuo mondo di bava spessa con lo spazio del mio sudore.
Lasciami massacrare le moltitudini oscene dei miei e dei tuoi messaggi.
Tu sei la mia Opera e nessuno oserà fermarmi.
Persevero e la mia nuca sottile indovina il filo dell'ascia.
I muscoli tesi del collo tendono a scoppiare e ciascuna delle corde si espande sino al delirio.
Cade, furioso, il fulmine dell'applauso.
Rido, rido, rido...
Il tuo odio si ferma sulle zampe posteriori, teso come un arco, crocefisso contro la sedia.
Sono un rogo vivente, vomito lava e sputo sulla tua disgregazione.
Quando il battito si estingue, non rimango cadavere.
Una commediante pazza senza ossa frantumate, né cervello incenerito.
Di me resta tutto.
Il mio rifiuto oscuro non giace a terra come la corolla spampanata che mi hai gettato.
Sono qui, a galla, nel tuo afrore.
Nuoto sulla pozza delle secrezioni fermentate, per sussurrarti che i vermi e i germogli hanno lo stesso alito e restano guardiani sulla nostra culla tutelare.
Rimanendo adespota e clandestina.
Il nutrimento è composto dai raggi colmi di scienza, messaggeri pellegrini di un patriarca riconosciuto apocrifo.
Onore tuo, che hai occupato un posto, un trono alto nel nostro gerarchico firmamento.
L'anatema ed il castigo sono delle infime reliquie che hanno ingannato le censure e preservano frammenti d'aghi sconnessi.
Te li delizierò piano, sottopelle, col mio sorriso lucido e cremoso, dal profumo d'insolito mirtillo.
Rincorro silenziosa la quiete della pièce, proteggendo il battito agonico del mio sangue.
Che altro vuoi?
Il tuo peso piega le mie ali, sei solo un corpo, senza vita.
Un uomo in dormizione, sostenuto dal mio refolo vaporoso e gemente di troppe arguzie baldanzose ed impudenti.
Giocando sui tuoi riccioli supplicanti, non comprendi cosa lamenta l'aria?
Odore di buono e di novella.
E questa corda al collo che ti trattiene nel mio spazio?
Continuo a recitare ruotando su me stessa.
Come un'adolescente, mi stormo dalla tua nuova ingiunzione e nel fremito della carne appesa, ritorno alla primitiva lentezza.
Il peggiore e supremo grado di questa prova è la cognizione del tuo essere dilatato, insufflato dalla sentenza del mio orifizio nobile.
Ma io raddrizzerò la testa e libererò le forme e le ali.
Non pronunciare mai il mio nome.
Non è il solo su mille bocche brulicanti nella sala.
Io ne ho tanti, multipli e mutanti.
Carichi di risonanze ed echi taciti e antichi.
Pezzi di lamina e di rumore.
- Baciami stupido! -
Ed onora l'ovazione.
Atto secondo.
E si apre di nuovo il sipario di velluto lacero e insozzato.
Cigolano i tiranti in similoro e frusciano le antiche frange sulle polveri antiche.
Scricchiolano le assi scheggiate, poste a guisa di soppalco, e nuove luci infuocate violentano la voragine gravida. Di me.
I metacarpi ottusi sferzano tonanti battute nell'aire ed io mi pasco della loro volgare invidia.
Apro un sorriso maestoso e fulgente che acceca le iraconde bestie al mio cospetto, scaldando loro i cuori fradici di deliri.
E tu mi osservi, satrapo della tua sola vita, spicciola, frivola, scardinata.
Ammiri questo mio delicato maquillage rosato, celante un rossore languido d'eccitazione da eroina indefessa della scena, domatrice saggia e inflessibile della propria esistenza.
La vaporosa chioma emana l'essenza marocchina del gelsomino di Tangeri e, ad ogni scotimento pernicioso del capo, produce un fremito di verghe, uno scioglimento di vagine, un rilascio di qualsivoglia orifizio.
Sono la presuntuosa convergenza d'ogni piglio.
Ed un brivido ebbro di tracotanza mi puntella le striature dei muscoli.
Sono felice di vivere in una nuova pelle.
Sono orgogliosa di aver scalzato le squame adamantine della tua infingarda bramosia.
Ho abbandonato un passato inzaccherato sulla petraia assolata.
Il calore ne accartoccerà ogni illusa e invalida piega.
Guardami e rimirami!
Intoccabile e dannata.
Seta d'Oriente mi scivola sui seni puntuti e sulle natiche deste.
Appaio un'affascinante geisha al servizio unico di se stessa.
Non m'inginocchierò al tuo capezzale, mentre, febbricitante, ti avvoltolerai nel vacuo talamo.
Nessuna squisita pietanza ti preparerò con le mie mani, materne e sapienti.
E del mio corpo non farai oggetto.
Parlo, urlo, spasimo in ogni centimetro di carne.
Sono pregna di vita, ubriaca d'energia, superba d'amore e accesa d'odio.
Rassegnati alla frustrante inesistenza della femmina ingentilita dal sesso e annichilita dall'annoso servilismo.
In questo nuovo atto, t'impedisco di intravedermi le grazie.
Hai trapassato il candore virginale del pizzo col cipiglio irriverente.
E so che l'acceso turchese del kimono ti viola le pupille.
Alle cromaticità morbide del cielo non sei avvezzo.
È il nero suolo limaccioso a cui hai sempre rivolto lo sguardo, con la testa ciondoloni e le pulci assalitrici delle sordide cagne che molesti.
Voltati e leggi l'ammirazione negli occhi di costui.
Lacrime di brina gli fioriscono sulla nuca calva ed un piccolo cencio ingrigito ne sgrossa l'indomabile rigoglio.
Comprendi ora?
Amata ed apprezzata, persino dagli sconosciuti.
E non essere funesto.
Non possiamo appartenerci. Siamo eroi di vissuti antagonisti.
Assieme abbiamo recitato quest'insolente tragicommedia, ove i toni si sono confusi, ma mai i ruoli.
Che la trama si sciolga luttuosa o il finale sia lieto, egregio mio Titivillus, poco me ne cale.
Fu devastante e procelloso l'incipit, scarnificante e molesto il proseguo.
Così io rimango l'Amazzone che conoscesti, col seno destro mutilo dal fuoco per scoccare sagitte insanguinate e con la cavalla nero ebano ben serrata fra le cosce.
Correrò fra i campi imbionditi dal grano, sulle sabbie imbrunite dai vulcani, fra i fili d'erba verdeggianti delle praterie e ovunque il vento sbarazzino vorrà condurmi.
Indomita, verso la meta della vita.
Dolente o gioiosa che sia, prego che mi scalfisca sempre e che depositi a monito una cicatrice profonda sul tegumento!
E tu?
Ci sorridiamo in un istante di rinfrancata complicità.
Tu rimarrai l'interprete indiscusso di ogni teatro classico che si rispetti.
Sei solo un satiro dal pene maestoso, ma posticcio.
Susciti risa e nessun plauso.
Ecco la mia agnizione.
La beffa la cantano le voci argentine degli eunuchi, l'avvizzimento delle ghirlande, il calore marcio che consuma l'ossigeno.
Mi dolgo per te.
Nel saperti di quella progenie maschia che impedisce l'ammissione di colpa.
Nel riconoscerti incapace di ringraziare a momento debito.
Nell'averti sorpreso ignaro dell'importanza di chiedere venia.
Scorgi nel pianto la fiaccatura e non conosci la melodia di un - Ti amo. -
Ma ho mangiato nugoli di polvere per te e i gomiti e i ginocchi portano escoriazioni brucianti di una faticosa arrampicata.
Un amore ingiusto mi ha annodato la razionalità e lacerato le provvide suture.
Chi sei dunque?
L'antitesi, il sovvertimento ideologico della felicità.
Rappresenti l'eterna fustigazione femmina della mancanza di un fallo punitivo. Sei la mutilazione secolare della clitoride, l'infibulazione della psiche sragionata.
Che quest'accorata confessione pubblica ti marchi a fuoco la pelle e ti erudisca di principi assennati.
Ed ora questo mio pubblico impazzito chiede la tua condanna.
Sali sul patibolo!
Solo così conoscerai l'ardore delle fiamme e lo sfrigolio delle catene.
Avvampata e prigioniera, tale mi rese la mia Passione per te.
Ed un ultimo desiderio ti è concesso.
- Baciami! - implori.
S'interrompe il canto delle voci bianche, cadono le margherite dai serti, si rarefa l'aria.
Annaspiamo in un silenzio che stordisce e ci ritroviamo ancora faccia a faccia.
Chi sia il Cristo e chi l'Iscariota, non è dato sapersi.
Le nostre labbra si cercano, memori e conosciute. E s'incollano in una sublimazione imperitura, estatica, evanescente.
Scrosciano gli applausi e la luce si spegne nel fragore.
Atto finale.
Prefica malevola, mi congedo da te.
E alla platea mi rivolgo.
Vi sono molti baci, paterni, affettuosi, benedicenti: uno per ogni tipo d'amore.
Ma il bacio sulle labbra fra due amanti, penetra come gelida lama nelle terga irrigidite e attecchisce come nodosa radice in fertile terreno.
Un bacio può renderci schiave, nel sangue e nell'anima.
- Non abbandonarti ad esso, resta tua! - sentenzia il Diavolo nel - Faust - .
(...Ci sentiamo di affermare che le nostre parodie brillano di un'essenza che attraversa ogni parola ed ogni imperfezione.
Tutta la produzione è stimolata dallo splendido sole ardente che pulsa nel nostro petto.
Proprio perché nel cuore abbiamo la luce, l'oscurità diventa ottenebrante buio.
Nella consapevolezza di un Paradiso, possiamo avere così una profonda esperienza dell'Inferno.
Ognuno di noi è pieno d'Amore universale che può distaccarsi o sublimare nella sfera divina dei Sensi, dei Sentimenti e tripudiare nell'Arte.
Solo i mediocri ed i superficiali non conoscono quest'aspetto.
Ecco perché, noi, ce ne innamoriamo follemente...)
Greta & Elisa
Rossogeranio & ElisaN