L'aria serpeggia indecente dietro i mascheroni Maya e le statuette sudanesi.
Si sofferma sulla pelle, ghiacciando il prodotto umidiccio della mia tensione.
Sprofondo nel velluto crème del sofà.
Intorno a me s'accavallano l'odore di stantio e l'aroma di un Habano, sfinito sul cristallo di Boemia.
Mi scruta da sotto una mensola in palissandro indiano, fra le ampolle decorate dei mille senni d'Orlando.
Da dietro la barba folta e corvina, mi sorride carezzevole, come nessun uomo aveva fatto mai; con una dolcezza ed una benevolenza tutte paterne.
La bambina irrigidita e zittita, che ancora vibra nelle corde del mio spirito, si sente scoperta e sedotta.
Stura l'annoso Glendronach, di cui riempie un bicchiere.
Si umetta le labbra sottili. Assapora sensualità e intensità.
M'informa di aver scelto il whisky che più mi somiglia: connotazioni di vaniglia, retrogusto fumoso e finale secco.
Mi penetra, inatteso, uno stiletto metaforico, fatto di parole calibrate e soffiate, con un'affascinante erre gutturale.
Cerco di distrarmi, facendo migrare gli occhi da un lato all'altro della stanza.
La mia attenzione viene catturata da una gigantografia che penzola sulla parete scoscesa del camino.
Vi è immortalata una donna dallo sguardo languido e vanesio, ottenebrato da lunghe ciglia posticce.
I boccoli chiari e vaporosi ne incorniciano il volto burroso.
Sembra Marilyn in uno scatto di Andy Warhol.
Lui si siede al mio fianco, perforando, con occhi di mare ghiacciato, i pensieri che pungolano la mia mente.
Intanto la notte scende, spezzata dallo stile liberty delle imposte e dal preludio estivo del canto delle cicale.
Ascolto il suo sorseggiare leggero e ne assorbo avida la fiata frizzantemente alcolica.
Tremo per il disarmante fascino della nuca da poco ingrigita e per ogni cantuccio magico che il suo eremo nasconde.
Mi alzo dal divano e sgambetto verso il balcone.
Sono stata improvvisamente investita da un calore smodato.
Avverto l'adrenalina ubriacarmi i neuroni, infiacchirmi i muscoli, liquefarmi il sangue.
Mi fondo con l'orizzonte indefinito, nell'ormai buio sodalizio del verde dei campi con l'azzurro del cielo.
E temo il mio improvviso eccitamento.
Una vendetta amara e femmina mi ha condotta sin qui ed ora fatico a respirare le sensazioni non premeditate, nel mio vestitino anonimo dal tessuto sintetico e costrittivo.
È la compostezza dei modi ad inchiodarmi.
L'irriverente disinteresse per le mie carni a destabilizzarmi.
Non ho acquirenti per il mio corpo in vendita, ma una contemplazione distratta che deflora le mie certezze.
Mi osserva, con una mezzaluna paralizzata sul volto, complice e candida.
È sul filo del rasoio consunto dalla monopolizzazione cerebrale che mi tiene sospesa, inerme.
Mi pietrifica la lingua, arrangiando alla perfezione le mie frasi mozze.
Ho fabbricato da me un cappio punitivo: lui ne è il nodo scorsoio.
Si solleva dal trono inquisitorio e raggiunge il pianoforte che spadroneggia, in veste lucida e nera, dirimpetto alle braci silenti.
Apre il cilindro e ne accarezza i tasti.
L'irrefrenabile desiderio di scivolare sotto i suoi polpastrelli mi impera di varcare nuovamente la soglia dell'ineffabile.
Scrive nell'etere - La morte e la fanciulla - di Schubert e, per un attimo, un sentimento di misoginia criminosa lo assale.
Trasalisco.
Cupida del suo charme composto, mi scopro esser stata espropriata, sin dalla nascita, dalla melodia della musica e delle fragranze ricercate.
Lo spicciolo quotidiano da sempre cadenza i miei istanti di vita e ne intreccia la timida tela.
Galoppano note infelici, fruscianti fra tomi di psicologia ed ingegneria elettronica.
Respirano di un'aria rinfrancata gli scacchi intagliati ed immobilizzati sotto l'annosa coltre di acari.
E il mio taglio, serrato fra le cosce, si bagna, rovente.
I tasti s'incantano in una chiusa azzardata.
Lui alza lo sguardo arrossato, dirigendolo verso l'acquosità spaurita del mio.
Il seno sinistro saltella lento, su ostinazione irrequieta del cuore.
Mi scivola dietro la schiena, felino e vigile.
Appoggia le mani possenti sul collo irrigidito e massaggia ogni centimetro di epidermide.
I miei pori vengono ridisegnati dai ghirigori ineguagliabili delle sue falangi.
La peluria dorata sul ventre si solleva e i capezzoli bruni si fanno indecoroso spazio sotto la stoffa pruriginosa.
Morbido e delicato, prende a mordicchiarmi l'incavo che va sconfinando dall'orecchio alla spalla.
La barba calda e sottile mi tatua la pelle olivastra con spasimo eccitante.
Un gesto meccanico e mi scosta lateralmente le spalline dell'abito. Scivola sul corpo, veloce, raggomitolandosi ai piedi.
Rimango nuda. Inebetita. Indifesa.
Appoggio il mio sedere tondo e generoso sul suo pube.
Il pene è duro e nervosamente ingabbiato dai pantaloni.
Il Glendronach mi ubriaca. L'Habano m'intossica. Il sesso m'inebria.
- Donne che corrono coi lupi - di Pinkola Estes.
È incastrato sugli scaffali della libreria.
Trasalisco.
ElisaN