E' passata su di me la tua piena.
Copiosa, fertile, implacabile, dopo un'attesa prolungata indefinitamente. Un tempo immemorabile passato ad immaginare, a nutrire fantasie, a costruire e ricostruire una complicità fragile. Un tempo di parole senza labbra, scritte su un foglio senza materia. Sfogliando calendari. Modellando la tua ombra. Dalle labbra, rosse e dure. Alle braccia, al passo, al gesto della mano.
A contare i passi affiancati sul selciato che si fa tappeto morbido sotto il piede leggero. E tacere tutte le domande senza risposta e tutte le risposte alle domande che non mi hai mai fatto. A cercare un contatto fugace e a staccarsi di colpo, per la scossa che viene. Ad attendere senza attendere, a chiedere senza chiedere, a temere senza temere. A volere, oltre tutto, al di là di tutto, sopra tutto, semplicemente volere.
Lo troveremo il nostro bacio, sì. Sarà nascosto all'ombra del vulcano, strettamente incuneato nei pori aperti della lava fredda, nera, profonda. Sarà nella duna di sabbia che il vento rompe e ricompone, sempre diversa e uguale a sé. Sarà sopravvissuto all'ultima notte di dicembre, allo squarcio di colore nel buio, alla finta allegria del mondo. Sarà nell'intermittenza della luce del faro di levante, che coccola e conforta i marinai.
Contro un portone. A soffiare fiato nella bocca, labbra a combaciare con labbra, strofinando lentamente. Stare lì, in bilico, e guardare sotto. L'orlo dell'abisso che le labbra spalancano si fa voglia di precipitarvi. La tua lingua, morbida, calda, sulle mie labbra, dentro la mia bocca, a cercare la mia lingua. Lecco, succhio, rallento, tenera, a respirare il tuo respiro. Ingoio saliva, nostra, assaporo e ingoio. Mordo, lievemente. Le mani che mi raccolgono la vita, mi spingono dolcemente di lato, due passi, ed è tutto il corpo che spinge. Nell'androne. Al buio. Intonaco scrostato. Muffa. Le tue mani dure, esigenti, sotto le mie costole. Sopra i fianchi e poi lungo le cosce, a sollevare la seta della gonna, a scostare il cotone dello slip. Avanzo col bacino fino ad incontrare il tuo e mi strofino contro il mondo.
Fino al tuo sesso di ramo. Vivo. Palpitante tra le mie mani, in ogni notte di veglia senza luna. A bruciare di desiderio insoddisfatto. A spegnere i colori uno a uno. Guardando un cielo diverso. Tu, sul limitare del deserto più inospitale e invivibile del mondo, a portare aiuto ai Saharawi in esilio, a cercare di strappare le loro vite alla fame e alla malattia, a far nascere bambini senza futuro, sporco di sangue e sudore in un ospedale di frontiera della cooperazione internazionale, arrostendo di giorno e tremando di notte. Io, a costruire un centro sociale in una città della striscia di Gaza, mattone, malta, mattone, sotto i colpi dei tank israeliani, senza acqua, senza luce, senza limite. Dove anche il dorso piagato degli asini mi strappava urla soffocate di ribellione.
Sulle scale. Nell'oscurità di un pianerottolo. Senza staccare le labbra. Mi volti contro la ringhiera. Mi alzi la gonna, da dietro. E ti fermi.
E che sarà quest'attesa? Una figlia scappata, desolata. Una fata?
Boccheggio in cerca d'aria, deglutendo a secco. Polpastrelli che mi sfiorano. Mi sfiorano. Mi sfiorano. Si staccano. Mi tendo verso le dita come filo di nylon strofinato. M'inarco verso quella carica elettrostatica: le cerco, le prego, le invoco. Finché mi affondano dentro. Entri e mi plasmi, mi rivolti, mi plachi.
Io e te. In posti senza posto per l'amore. In questo immenso letto di distanze. Mentre mi cresci dentro, occupi tutto lo spazio, ti muovi ed è infrangersi di vetri, zampillo di fontane, fragore di tuono. E' nostalgia struggente di qualcosa che non abbiamo ancora avuto. E' grazia oscena e oscenità piena di grazia. E' orientarsi e perdere il sentiero. E' un desiderio caparbio, ottuso, esuberante, che tende, spalanca e smuove lacrime dal fondo. Sommando meraviglia a meraviglia.
Sul pavimento dell'ingresso, freddo sotto le ginocchia, mentre finalmente mi scivoli nella bocca. Il tuo cazzo è un labirinto. Di cui non voglio trovare l'uscita. Non ho bisogno d'esplorarlo, lo conosco. Conosco ogni piega, ogni anfratto, ogni umido nascondiglio, vi penetro con la lingua e poi lo ricompongo. Mi perdo e ti ritrovo, grazie alla tua mano, che mi guida e poi mi tira indietro la testa in cerca degli occhi. E ti ricevo come pioggia fresca in un assolato pomeriggio d'agosto.
Racconti i desideri come fossero rivelazioni. Li porgi ricamati di sconcezze, ed ogni parola è un cuneo infilato nella mia eccitazione. Sconcio, visionario e saggio. - Adesso voglio stare lì con la testa infilata tra le tue cosce, a tenerti alti i fianchi come davanti ad un piatto di cui sono affamato, a passare la lingua dove sei più indifesa e bere tutto: lacrime, bava, succo di fica e fragole che ti ho spinto nel culo con le dita. - Giochi, mulinelli di parole che alzano polvere d'oro che finisce negli occhi e il paesaggio si fa abbacinante, acuminato e candido.
A letto, dove ti ho portato tenendoti per il cazzo, come fosse la mano di un bambino riluttante. A letto, dove i desideri diventano imposizioni. Dove posso stare solo aperta, indifesa, docile, perché non lasci scampo, non esiti, non desisti. E quando intravedi un dubbio, lo mordi, lo laceri con i denti, lo lasci a brandelli. Dove non c'è differenza tra carezza e carezza. Dove la tua carne sta nella mia carne, senza confine. Senza fine.
Se c'è ancora un viaggio che vuoi fare, sono io quel viaggio.
Jihan