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Racconto n° 2978
Autore: Rossogeranio Altri racconti di Rossogeranio
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Il piatto della Dea
La tela ritraeva l'artista stessa.
Una donna altissima di giunonica bellezza.
Capelli scuri colore delle tenebre, con ciocche ricadenti a spire, simili ad anellidi glutinosi.
Li portava sciolti sulle spalle, con appuntata una rosa fresca, come le creature di Gauguin.
Era coperta da una lunga tunica nera, ampiamente scollata davanti sulla pelle ambrata dal sole e calzava sandali rasoterra, che la rendevano bizzarra e sibillina.

Lui restava immobile all'ombra del quadro, già in procinto di abbandonare la galleria.
La donna dipinta gli portò qualcosa di nuovo, fortemente avvertibile.
Un percettibile frammento d'abbondanza che con spreco sfavillava ed esplodeva nelle sue viscere.
L'atomo di colore buttato contro il muro, che non riusciva a trattenerlo stabile.
Il suo gusto emergeva smembrato tra la folla di curiosi, come in preda ad un tormento.
Quella strana impressione di seguire la splendida traccia che gli era offerta agli occhi e alle membra.
Doveva possedere quel quadrato unico, ingombrante di una freschezza esclusiva di arance amare e di radici di violette polverizzate.

Così iniziò a seguire la pista con animo febbrile, pregustando il sebo dolce dei suoi capelli, l'avorio granuloso della pelle, le curve tornite dei seni che sporgevano dall'insenatura dello scollo del vestito.

Era in attesa, pregustando un amplesso di titani, ad altissima tensione.
Il mutamento soave e drammatico dell'istinto lo indusse ad interrompere i suoi affari e prendersi del tempo, per arrivare sino a Lei.

La montagna si stagliava improvvisa sul piatto del paesaggio costiero.
Osservava nel suo profilo una faccia di gigante pietrificato, sdraiato con il mento sull'onda.
A contemplare e governare il mare.
Sulla sua schiena si arrampicavano praterie di girasoli, faccia alla luce, sino alle radure fitte di ginestre, che gli crescevano ad ali sui confini, nei lembi dorsali.

Nell'intento di trovare la via più breve all'arrembaggio, iniziò a fare domande sull'autrice, agli abitanti del borgo.
Nel luogo si godeva un misto di curiosità e timore per le sue stranezze, tanto che tutti i bambini e gli sboccati le notavano dietro che era un'indigena stramba o una maga intrepida e audace.
Nessuno sapeva realmente da dove era venuta, ma i suoi idiomi coloriti rimanevano espliciti, in un paniere d'esclamazioni e fraseggi in esotico gergo asiatico.
Così, senza aver mai espresso il suo vero nome, fu unanimemente invocata con il nome di Kalì.
La Dea Oscura.
Colei che è il tempo, Lei che consuma il tempo.

In una vecchia osteria del villaggio, nel basso paese, lui trovò indicazione alla sua domanda.
- Se vai lassù, conoscerai la fallace vertigine - .

Gli avventori erano stati netti e chiari, ma lui amava sfidare i suoi stessi brividi.
La presenza di prospero peso, stimolava la sua indole animalesca.
Sempre all'inseguimento di carne traboccante, depurata da ogni sentimentalismo.
La passione viscerale per i ventri gonfi, le gambe piene e i petti grossi e polputi.

La strada scoscesa nella roccia precipitava sino al bianco della risacca del golfo sottostante.
A pochi passi dalla guglia più alta della cima, in un piccolo pianoro, si ergeva la dimora dell'artista.

Giunse arrancando a fatica, con fascicoli sottobraccio, telefonino, portatile e appunti di viaggio.
Si sorprese a congedarsi con la sua segretaria, cimice nell'orecchio, con gli ultimi dettami di significato ispido.
Miasma acre di quintali d'insaccati e formaggio, grasso rancido di panieri di cacciagione e cassette di pesce in via di decomposizione, sintetizzati in incremento di capitali in controvalore effettivo patrimoniale.

La vista da lassù era impareggiabile.
Nella stria azzurra, tra il lilla pallido del glicine che ricadeva dal pergolato davanti casa e il fogliame verdescuro dell'alloro, si scorgeva a stento la linea intuibile dell'imperscrutabile orizzonte.
Il patio si districava a fatica tra nodi e ghirigori di piante ombreggianti di querce e castagni.
A terra, boccioli d'oleandro conservati in brocche mosaicate di terracotta.
Il luogo ideale per amanti clandestini.

Si presentarono senza troppi convenevoli e lui addusse il motivo di una tregua di lavoro.
Una stagione di passaggio.
Il transito breve attraverso una geografia maliarda.

Così iniziò il loro idillio, in apparente ed effettiva intimità.

Negli scampoli di tempo, Lei dipingeva e intagliava solo Madonne ispirate.
Lui si dedicava distrattamente alla casa, alla cucina e a rimpinguare l'ardente cupidigia.

Scettro dell'unanime desiderio, era accoppiarsi senza inibizioni in qualsiasi momento del giorno e della notte, lasciandosi andare senza remore né verecondia.
Nella secca stroncatura di dialoghi e confessioni psichiche, concentravano i loro atti figurati, accavallandosi in ogni alloggiamento, senza mai raggiungersi nello sfinimento dei capricci e dei fiati.
La femmina prorompente affondava i suoi ventricoli cartilaginosi inondati di tenera sugna, in un avvinghiamento maniacale e divorante.
Il maschio impaziente ebbro, grande, duro e incoronato in punta dalla vaga lucentezza serica del glande, cresceva velocemente e a dismisura, sentendosi il membro sempre più potente, dilatato e proteso alla penetrazione.
L'avidità di entrambi era portata a masticare pezzi sanguinolenti di membrane, nella foga d'accaparrarsi la goccia biancastra della nivea lava corrosiva.
La vernice fresca atta a generare orribili ulcerazioni, dure lesioni primarie nella sevizia d'ogni cavillosa protuberanza.
Alla fine cadevano esausti in posizione orizzontale, come flogistici filetti di carne tranciati sottopelle lucente color avorio, che cominciava inesorabilmente a consumarsi e rinsecchirsi.
I gonfi promontori biologici affetti da infiammazioni e cancrene maligne.

Ogni raffigurazione inseguiva l'apoteosi più cruda, verso una sorta di mitologica coazione elastica.
Assicurando tutti i modelli in una forma severa e depurata dagli elementi ispirati.
Il canto delle cicale segava i loro pomeriggi vibranti di calura.

Così passarono i giorni.
La carne all'aria si manteneva a lungo più di quanto qualsiasi merceologo potesse supporre.

L'odore di pingue materia liquefatta aleggiava per tutta l'atmosfera.
Le copule ininterrotte favorivano una dimensione ottusa ed ebete.
Inevitabilmente, Lei cadde in una crisi mistica ed artistica.
La sua taglia e lo spessore andavano lentamente a vacillare.
Le opere stesse non sembravano più fiorenti e materne Madonne.
Niente a che vedere dall'usuale carnalità originaria, dai seni prosperosi e i ventri morbidi e lussureggianti.
Come alcune tele di Klimt, comunicava in modo immediato e nauseabondo l'orrore per la prosperità e il concepimento.

Nel frattempo il suo corpo era diventato quasi efebico.
Esile, asettico, esangue, divorato.
Mentre Lui, in condizione placida e lasciva, aumentava di proporzione.

Nei nuovi tramonti, il mare diveniva ordito di riflessi grigio acciaio e porpora, punteggiato da una coroncina d'aghi di spuma.
Nuclei di luce deputati a tagliare dall'universo, orli di una fetta tolemaicamente piatta della terra.
La vastità sfumata in una nuova visione, con il velo madreperlaceo lento, che s'intesseva in lontananza.
Nella graduale putrefazione delle notti tremule ogni volta trascorse, si accendevano bagliori d'incendio.
Il riflesso delle fiamme al declino, giocava tra l'arancio e il rosso, sino ad impallidire nell'oscurità che l'alba andava ogni giorno dissipando.

Lei comprese che doveva allontanarlo, liberarsene in fretta, prima di cominciare a perdere l'impalcatura ossea e l'intonaco appassionato dell'anima.

Ci vollero giorni per convincerlo a partire.
Lui non ne voleva sapere.
Ubriaco ed eroso d'immensità oleose e vertigini d'eccitamento.

Lei intagliava e dipingeva controvoglia, in un'assenza di peso e di gusto da risvegliare l'istinto alla sopravvivenza intima e naturale.
Una mattina al risveglio, si accorse nel sogno, di aver bevuto come carta multiassorbente la realtà tonale del suo disgusto.
L'irrevocabilità di un'esistenza giunta oramai all'osso, lapidata.
La donna raffigurata come un palo arido di sacrilega supponenza.
La visone artistica non era a priori.
Moriva per riapparire nella materia.
Produceva nella manipolazione la faccia completa che diventava caricatura, irrisione e maschera di forma reale, rotonda e vivente.

Sorprendentemente le sue labbra oramai sottili e fragili, iniziarono ad aprirsi e parlare.
Il confronto con se stessa aveva raggiunto il taglio più profondo.
La scelta della Madre di Dio come soggetto privilegiato della sua creatività nella mistica tradizione della divinazione pagana, aspirava unicamente ad una donna pura.
L'epigona di Kalì, Regina del mondo, con gli arti a sorreggere strumenti di punizione e purificazione.
Un torso che si erge su due fianchi di divina grossezza, con quattro sciabole impalate in un solo cuore.
Il pensiero la eccitava e si accinse alla mola ad arrotare un lungo coltello.

Lui venne anche quella volta, con la stessa faccia del paesaggio.
Il gigante pietrificato, sdraiato con il mento sull'onda dei capelli corvini a governare e intingersi nella sua stessa polpa.
Con la sfrontatezza di un'artista da circo, asserì caparbiamente che voleva mettere radici e affondare per sempre nello scheletro di quel terreno, per vivere della pianta carnivora dell'Amore.

Lei annuì e nella massima interpretazione afferrò il fallo eretto per lasciarlo morire nel viola lampone delle sue piccole labbra.
Con le pupille sottili come capocchie di spillo, si guardò le proprie mani d'artista.
Belle, piene di carattere nella trama delle vene, con dita sensibili e unghie vive e nervose.
Il movimento fu un colpo abile e preciso che aprì le interiora e le giunture.
Con la lama acuminata suddivise i lembi in piccoli ciocchi in infinite combinazioni possibili.
Nella penetrazione erotica del tessuto compatto ed elastico, uscirono poche gocce di sangue.
Il taglio del piacere eccitato fu pari alla sua durezza in affilatissime e diritte incisioni brevi.
Lei ritrovò l'equanime nutrimento.
Il solo pane in un unico spirito.
Il piatto della Dea.

Un'ombra di felicità velò gli occhi bistrati e felini.
La Madonna Nera si era rinvigorita senza riserve.
Sui resti del pasto si accanirono corvi e formiche.
Il morbido vello lanoso era ridotto a brandelli e brulicava di vermi.

Nel tascabile nascosto della tunica, raccolse un bocciolo di rosa fresca.
Lo baciò tra le labbra nuovamente tornite e vermiglie e se l'appuntò tra i capelli.

La vistosa corolla che reclama a sé, naturalmente, la vita della Madre.
Confermandola, inconsapevole e autoritaria, unica Donna nello sdoppiamento miracoloso e amorevole della legge blasfema degli uomini.
Che hanno sempre sacrificato i loro figli all'altare
in nome del vizio, della superficialità e del potere.

Kalì poteva ritornare nella tela.
Una Dea eccelsa e florida, di straordinaria avvenenza.

La più grande e sazia Opera d'Amore, s'era compiuta.

Rossogeranio

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