Le sue mani sono tenere mentre si poggiano sulle mie piccole forme, sono morbide ventose che aderiscono su flessuose e bianchissime rotondità, sono calde e ostinate tentazioni che respingo con le poche forze che mi dà la mia capacità di reprimere i desideri più inconfessabili e incancellabili.
Lasciami fare, dici, lasciami fare, ripeti. Parli di geometria, matematica e numeri reali, di logaritmi, ipotenuse e raggi, cose che mai faranno parte della mia vita mentre ne fai parte tu, che intanto tocchi tocchi tocchi e sorridi. Dio come sei dolce, Dio quanto mi piaci, ma io no che non ti lascio fare e soffro perché vorrei, sì che lo vorrei, tantissimo lo vorrei eppure dico di no, no e ancora no e mi struggo nel pensare che potresti essere mio, Giovanni, finalmente mio e solamente mio se solo non mi difendessi con questa tenacia, se solo non fossero durissime le mie mani nel respingere le tue tenere e vogliose, se solo queste tentazioni avessero la meglio non solo dentro ma anche fuori di me.
Invece resisto. Resisto ancora un pomeriggio, una sera, un mattino, una settimana, un mese, un anno, e non so quanto terrò durante queste noiosissime ma per me fondamentali ripetizioni di matematica. Sei il più bravo del corso, sei dolcissimo non solo perché mi aiuti ma anche perché mi vuoi, però resisto perché un amore così non si può e per adesso tengo, linea del Piave insormontabile i miei jeans attillati su forme fin troppo sinuose, mi pento di essermeli messi così attillati anche se superabbottonati, mi pento di averli strizzati così dentro una cintura che mi fa il vitino di vespa ed esalta la forma rotondeggiante del mio sedere, mi pento anche della mia camicetta trasparente perché fa caldo – così ti ho spiegato, ma so che non ci credi, lo so e so anche che voglio che tu sotto sotto non ci creda – ma che è pure lei chiusa fino all'ultimo bottoncino sul collo, che quasi soffoco.
Perché ti tento e mi tento e poi ti resisto, amore mio, perché lo faccio, perché non cedo e non faccio l'amore con te... non lo so, non so dirlo, so solo che non arretro e tengo, ma si può resistere per sempre alla propria natura...?
Mi vesto così perché così mi sento dentro e voglio sentirmi anche di fuori, mentre tu lo fai per gioco, lo so, vuoi provare te stesso e anche me, vuoi rischiare l'amore diverso anche se le ragazze non ti mancano ed è inutile battere su questo tasto, è inutile chiederti perché, perché vuoi proprio me, non lo so, rispondi, non lo so ma voglio anche te, dici, è l'oscura legge del desiderio che nessuno può governare.
Io provo a darle un governo, a questa dannata legge, vorrei essere tua moglie ed essere riempita da te, del tuo sesso, del tuo seme, restare incinta di te, darti un figlio partorendo tra le urla e vedendoti sorridere e piangere al mio fianco, ma non posso, non posso né essere tua moglie né rimanere incinta né darti un figlio, però voglio che trovi una moglie vera e faccia tanti bei bambini e magari ne chiami uno come me, Roberto, e se è femmina meglio ancora, chiamala Roberta che poi è il mio vero nome, quello che sento veramente mio.
Quando vengo a lezione da te porto le scarpe chiuse, chiusissime nonostante il caldo, che c'è sul serio, porto scarpe e calze perché non voglio trasmetterti alcun mio odore effluvio sapore, ma forse solo perché non voglio svelarti il mio segreto, la mia piccola grande, unica perversione cui non ho mai saputo resistere e che tengo nascosta nei miei piedi lunghi e affusolati che sotto sotto fascio con le calze autoreggenti e ancora più sotto dipingo.
Coloro le unghie di rosso notte sanguigna.
È tutto dolce, tutto tenero, tutto insensato, perché porto intimo femminile, calze velate Omsa dieci denari, belle da carezzare sulle mie cosce da stangona, mi smalto le unghie dei piedi e sotto i jeans attillati ho anche un perizoma rosso fuoco però resisto, che idiota puttana che sono, che senso ha, mi vesto da troia e però resisto.
Resisto perché?
Perché devo.
Devo e basta: questa è la mia strada, non dev'essere la tua.
* * *
Però la sentinella non tiene sempre la guardia alta, non può stare sempre all'erta e così capita la cosa più stupida, capita che sei in bagno che ti depili le gambe e che disegni un triangolino malizioso proprio lì attorno, proprio laggiù dove porti tatuata (sotto l'ombelico e prima che inizi il cespuglietto di peli) una bocca da baciare...
Ma capita pure che hai lasciato la porta spalancata perché pensavi che queste cose puoi farle in solitudine beata nella villetta al mare e invece spunta Fabrizio che ha le chiavi e che doveva fare dei lavori a casa, gliel'aveva detto mia madre e chi lo sapeva, mia madre non sapeva nemmeno che io andavo a casa a mare, credeva fossi a lezione all'Università e così la frittata è fatta.
Lui vede la mia macchina posteggiata, non bussa, non pensa che io sia lì per la classica scappatella, non ho fama da maschio da scappatelle anzi non ho proprio fama da maschio, crede che – come faccio spesso – io sia a mare a specchiare il mio animo nelle onde che il vento e l'inverno fanno turbinare e impazzire nella baia sotto casa. Entra dal retro e non fa rumore, passa dal bagno che è giusto il posto in cui deve lavorare e quel che vede non crede sia vero, però è verissimo.
Scusa, dice, scusa vado via non volevo non sapevo, scusa ma un poco se la ride sotto i baffi, mentre io istintivamente afferro la prima cosa che trovo, accappatoio tovaglia spugna, e me la tiro addosso al corpo bianco e nudo e liscio come non mai e travolgo tutto, la boccetta dello smalto ancora aperta dopo che mi ero dipinto le unghie di mani e piedi, il rossetto con cui mi ero spennellato le labbra, il phard che mi aveva arrossato le gote, il rimmel con cui avevo scolpito le ciglia come una divinità egizia, l'Oil of Olaz con cui mi ero massaggiato la pelle, la Magie Noir con cui mi ero profumato.
Combino un patatrac, per terra si crea un miscuglio rosso rosa giallo bianco azzurro nero, tovaglie e spugne si impregnano di sostanze confuse come confusa è la mia esistenza, Fabrizio va in salone, ma non posso scappare né da lui né da me stesso o – come mi chiamo quando sono da sola – da me stessa, dal mio essere lei, femmina repressa in un corpo che non ho mai imparato ad accettare e che violento a suon di ormoni, creme e trattamenti laser che mi hanno fatto perdere quel poco di barba che avevo e che mi hanno fatto sbocciare un paio di tettine prima appena visibili e che ora a stento contengo dentro una seconda misura.
Prima o poi doveva succedere, mi dico, ho vent'anni fatti, prima o poi doveva succedere, ma non volevo che accadesse così e mi trascino desolata in salotto. Fabrizio è lì che non sa cosa fare né cosa dire; mi conosce da bambino, ha un paio d'anni più di me, siamo cresciuti insieme e il primo pisello che ho visto nella mia vita è stato il suo, me lo ricordo enorme, grosso, mentre io di grosso ho avuto sempre e solo le zizze, così chiamavano le mie tettine minuscole ma evidenti sin da quando ho cominciato a crescere e a soffrire.
Lui, che mi conosce da sempre, poteva avere intuito che sono così, perché bastava vedere i miei tratti efebici, i miei lineamenti femminei, i capelli che pettinavo alla maschietta, più da donna che da uomo, la mia vocina delicata. Non ci voleva grande perspicacia per intuire o capire, ma sono pur sempre il figlio o la figlia del padrone e nessuno aveva mai osato ipotizzare o parlare, nemmeno lui, ma adesso lui ha visto, sa, ha la prova provata.
Inutile tentare di far sparire trucco e belletti, mi dico, la realtà va finalmente affrontata per quella che è.
Mi sono messa la prima cosa che ho trovato, una vestaglietta di mia sorella che mi veste bene, minuta come sono. Il trucco non l'ho perso, sono a piedi nudi e camminare così mi pare una cosa terribilmente sexy. Sotto porto solo un paio di slip femminili, ho l'aria patita di chi è stato beccato, ma nel complesso sto bene. Lui si è seduto in poltrona, mi siedo davanti a lui. C'è silenzio, fuori il cielo è cupo, si sente solo il rombo sordo del mare in tempesta.
Stiamo senza parlare un'eternità, due, tre, cinque minuti. Lui guarda non so dove, io guardo lui, ma non riesco a fare uscire un suono uno dalla mia bocca.
Succede sempre così, dico all'improvviso tutto d'un fiato, succede sempre con l'idraulico, e sbotto a ridere nervosamente e la battuta ha successo, sdrammatizza, ride anche lui.
Io però non sono l'idraulico, risponde lui quando smette di sorridere e pare quasi volere difendersi e allora mi faccio seria, sì, gli dico, non sei l'idraulico ma...
''Ma'' e non riesco a proseguire, non so come continuare anche perché lui mi ha poggiato una mano su un ginocchio nudo e quella mano è bollente e le basta un lieve, lievissimo movimento di tre dita – indice medio anulare – verso l'interno coscia, cinque-sei centimetri, non di più, per trasmettermi una scossa di calore che si irraggia sull'epidermide e sulle fibre nervose di tutto il corpo, si espande attraverso i vasi sanguigni e arriva fino al cervello, passando per la schiena, che sento improvvisamente debole e cedevole.
L'altra mano prende delicata un bordo della vestaglia, lo allarga, lo tira e lo sfila dalla cinturina sottile che nascondeva in equilibrio precario la mia nudità, scopre una parte della mia morbida seconda misura, il capezzolo violaceo e turgido che la sormonta, e intanto il nodo della cinta si scioglie, frana e straripa anche l'altra tetta, Fabrizio se ne riempie subito una mano, massaggiandomela con il polpastrello del pollice.
Le trovo calde, le sue mani e, nel silenzio che intanto si è fatto rovente, il palpeggiamento è intenso e delicato, polpastrelli e minuscoli buchini dei capezzoli dialogano. Lui prova ad entrare dentro di me attraverso il lieve sudore della sua pelle, che si mescola al calore della mia, dei capezzoli che diventano sempre più ritti e turgidi per effetto delle sue carezze. Mi avvicino, mentre con l'altra mano lui tira via la vestaglietta di mia sorella e mi lascia nuda, con i soli slip addosso, le sue mani come dolcissimo reggiseno in leggerissimo movimento rotatorio, lo smalto sulle unghie di piedi e mani come invisibili calze e guanti, e io mi avvicino ancora, sono ormai a un palmo da lui, sento il suo calore, il suo odore, il profumo della sua pelle, del dopobarba intrigante che si è messo. Non riesco a credere che stia per succedere eppure è così, anni di esitazioni e struggimenti e adesso succede così, in maniera quasi banale, con uno che mi conosce da sempre e che adesso mi accosta a sé cingendomi i fianchi solo con le dita che nemmeno fanno pressione e mi sembrano calamite irresistibili. Anni trascorsi a resistere e a reprimermi e adesso piego il tronco verso di lui, chiudo gli occhi e sento due labbra morbide che si posano sulle mie carnose e dolciastre di rossetto, sento il primo bacio appena percettibile e il pizzicare della sua barba di tre giorni sulla mia pelle che ho reso liscia come il velluto, sento un altro bacio che sfiora la mia bocca, sento che mi sta lavorando lentamente ma con maestria e quando ormai vivo per il prossimo bacetto fugace sulle labbra la sua lingua scavalca le mie ultime fragili barriere e si insinua dentro la mia bocca, si allaccia alla mia lingua, l'avvolge calda, l'assaggia cedendo e prendendo saliva, le regala il suo sapore, si impadronisce del mio.
È un bacio lungo, appassionato, è il bacio di un uomo che si tiene per la lingua a una donna, quale mi sento io in quel momento, nuda e porca come mai avevo voluto essere prima, nemmeno con Giovanni, che sentivo di amare e di desiderare e che non ho mai voluto forse proprio perché lo amavo troppo per dargli un amore come quello.
Fabrizio è la carne, è la passione, è la forza irresistibile, si mette in piedi continuando a baciarmi, mi solleva come fossi un fuscello, mi prende in braccio e mi porta sul lettone dei miei, mi adagia sul piumone ma non smette di spupazzare la mia lingua e dopo la lingua passa alle tette, nettare degli dei, dice, come se da me bevesse quel latte che non potrò mai avere e me ne cruccio, ma è troppo bello cedere e lui sta sopra di me a bere la sua stessa saliva che impregna i miei seni e a succhiarli e morderli e alla fine mi sfila le mutandine, vede il triangolino che sovrasta il cespuglietto di peli e la mia piccola carne durissima, bacia la bocca tatuata, l'ombelico e di nuovo le tette e intanto non so come faccia a spogliarsi, ma lo fa in un battibaleno, si libera e getta via maglietta scarpe e pantaloni e mi mette sotto il naso ventotto centimetri di carne viva, tesa in tutti i gangli nervosi, attaccata a due coglioni rosei e pieni di peli, un'asta dura che vuole solo essere succhiata e io la succhio avida, anche perché lui mi fa spalancare ruvidamente quella bocca che un attimo prima stava adorando.
Succhia, troia, succhia puttana, mi dice ed è convinto di essere nel giusto, perché succhio come una professionista anche se non l'ho mai fatto, solo sognato, tante volte sognato mentre impugnavo la mia piccola sciabola di sesso e pensavo di tenere in mano o in bocca o tra le tette quella di Giovanni, succhio anche se mi sembra enorme, mi sento una professionista, ma il pompino è arte antica che necessita di lunghi allenamenti e il pisello di Fabrizio è tanto, troppo grosso e ora sento che mi afferra per i capelli con violenza, piano, mi dice, mi fai male, fai piano piccola puttana, e per essere più convincente mi molla un ceffone. Mi piace picchiarti piccola mignotta, e giù un altro schiaffo, non pensavo potesse piacermi tanto con un finocchio come te, voglio farti male, girati e in un attimo mi ritrovo nella posizione della pecorina, faccia schiacciata sul cuscino, culo in alto, cosce divaricate e sento che mi lecca, ma che fa, mi lecca, sì mi sta leccando proprio lì, lo sfinterino vergine, quanto mi piace, ma vuoi vedere che me ne vengo così, quanto sono porca, mi lecca perlomeno per cinque minuti e intanto mi tocca il sesso, lo mena pian pianino, giocherella con i miei testicoli, poi esplora la turgidità dei miei capezzoli e intanto mi viola con un dito, mi fa sussultare e allora lecca ancora, mi sditala di nuovo. Non mi fa più male, mi piace e alla fine mi riprende per i capelli, mi attira a sé, fai piano, mi dice guardandomi negli occhi, mi si è ammosciato e devi riportarlo su, ma fai piano perché se mi fai risentire i denti te li faccio saltare a suon di schiaffi, ed io lì, buona buona e obbediente, sottomessa, gli succhio il glande caldo, lo faccio entrare e uscire dalla mia bocca, lecco tutta l'asta, gli faccio sentire la mia lingua dolce e sento la sua mano ammorbidirsi, adesso non mi tiene più i capelli stretti a mo' di avvertimento, adesso mi accarezza, brava la mia piccola bocchinara, dice, e mi ringrazia con un bacio che sa di sesso infuocato, poi mi rimette alla pecorina e comincia a sfondarmi prima piano, poi sempre più vigorosamente.
Mi riempie della sua carne poco per volta, si fa male, mi fa un male cane, mi tiene per i fianchi e per le poppe, mi tortura strizzandomi i capezzoli, vorrei urlare di dolore, ma in realtà mi piace ed è come se mi vergognassi, è come se ci sentisse qualcuno, ma nessuno può sentirci e allora lui mi toglie il cuscino dalla bocca, grida puttana, mi urla, grida che mi piace sentirti gridare e intanto la sua carne riempie le mie viscere. Soffro e godo, vengo come una baldracca insozzando il prezioso piumone di mia madre, mentre lui continua a spingere su e giù, avanti e indietro, e a strapparmi brandelli di carne e di dignità, mandando definitivamente a quel paese le mie remore, le mie inibizioni, la mia inesistente mascolinità, scrivendo la prima pagina della mia storia di femmina e di troia.
Adesso lo sento vibrare, irrigidirsi ancora di più. Mi ha manovrata come voleva tenendomi per i fianchi, facendomi un male cane e sculacciandomi di tanto in tanto. Estrae la sua carne dalla mia, lo sento gridare e qualcosa di caldo mi colpisce sul collo, sulla nuca, mi riprende per i capelli e mi fa girare precipitosamente, mi viene addosso, tette collo faccia e infine me lo sbatte in bocca, succhia puttana puliscilo, puliscilo per bene, dice, quanto sei mignotta. E la cosa più grave è che so che ha pienamente ragione.
* * *
No, non ci riesco.
Giovanni mi invita a casa sua, per l'ennesima ripetizione, parla di matematica e logaritmi, ma so bene che l'unica ripetizione cui pensa è quella di provare per l'ennesima volta a toccarmi le tette. Non ci riesco, è più forte di me. Pazienza, lui è il più bravo del corso e io sarò senz'altro bocciato, o bocciata, in matematica, e ripeterò l'esame o cambierò facoltà, fanculo. Non riesco a guardarlo in faccia, dopo quello che è successo con Fabrizio, nel frattempo totalmente sparito nonostante i miei accorati messaggi, i miei inviti a rivederci e a riscoparmi.
No, non riesco a pensare alle mani di Giovanni, non so essere sereno, o serena, non voglio vederlo.
Lui non fa che chiamare, io non rispondo.
Resisto. Non so perché, ma so che devo fare così.
Una lacrima scivola lungo la guancia che ormai impiastriccio liberamente di phard senza più pormi il problema di essere scoperta.
* * *
Seppi dopo alcuni anni dalle sue nozze che Giovanni mi aveva mandato la partecipazione con l'invito, e che aveva insistito perché andassi al suo matrimonio. Mia madre gli aveva risposto la verità e cioè che non sapeva dove mi trovassi. Io stavo già per i fatti miei, in una città che non era la mia, avevo un compagno fisso e avevo iniziato il percorso necessario per subire l'intervento.
Entrai in sala operatoria lo stesso giorno che sua moglie diede alla luce una bellissima bimba. So che la chiamarono Roberta e che oggi sono felici tutti e tre.
Dopo che avevo cambiato sesso da cinque anni, Giovanni riuscì a trovare il mio nuovo indirizzo, quello del mio ex compagno e attuale marito, e mi mandò un biglietto.
Solo poche parole.
Avevi ragione tu, aveva scritto: era la tua strada, non la mia. Solo adesso capisco quanto devi avermi amato per non avermi ceduto.
Buttai il biglietto nella spazzatura, sporco di lacrime e phard.
Eva blu