Il muro era là. Un muro a secco, di piccole pietre aguzze e taglienti, disposte ad opera incerta, alto appena un metro, coperto per quasi tutta la sua interezza da un glicine secolare. Ma il glicine, in quell'autunno luminoso, era ridotto ad un complicato intrico di rami nodosi, nudi, contorti, che si avvolgevano con un andamento a spirale. Gli acini vellutati, dall'inconfondibile colore, se l'era portati via l'estate appena trascorsa, insieme alla sospensione del loro incontro.
Il muro correva parallelo alla strada. Solo a tratti s'interrompeva o si piegava per la presenza di una roccia o di un tronco vecchio, che per diritto d'anzianità e bellezza la ruspa aveva risparmiato. Il loro rapporto era un po' come quel muro: solido, alto quanto basta a lasciare l'orizzonte libero alla vista; ruvido e incerto, piegato e interrotto, a tratti, in presenza di qualcosa di più antico e più forte. Era un amore di rapina, ma un amore. Come sanno essere amori quegli strani miscugli di consapevolezza e perdizione, che ogni tanto interrompono il cammino di quelli che sanno perdersi e tornare. Lei con lui si sentiva dannata, senza colpa, leggera e persa. Sentiva vagare dentro di sé, come geni malati, i semi della corruzione che lui le aveva infuso con determinazione tenace di contadino. L'aveva dissodata, arata a lungo, spargendo dentro di lei quei semi rossi; solerte, innaffiandola copiosamente, ripetutamente, aveva atteso il mutare delle stagioni.
Guardateli, adesso.
La strada che corre da Passignano sul Trasimeno a Castel Rigone, in quell'imbrunire autunnale, si staglia nitida tra le colline morbide, rivestite dal tweed delle viti ordinate in filari. La luce violetta, radente, stende sul paesaggio un velo di dolcissima malinconia. Dentro l'auto che corre lenta risalendo le curve c'è invece una tensione palpabile che non si lascia contaminare dall'atmosfera autunnale. L'uomo guida rilassato, le mani appena appoggiate sul volante, il busto aderente allo schienale. Fra le sue gambe divaricate nello spazio tra i pedali, una gamba di lei. Una gamba invadente, sfrontata, lasciata nuda dalla gonna raccolta fino al fianco. La coscia abbandonata sulla coscia, parallela al suo inguine, il ginocchio flesso, il polpaccio schiacciato contro il bordo del sedile. La donna è appoggiata con le spalle di sbieco tra lo sportello e lo schienale, la maniglia la costringe ad arcuare la spina dorsale. Ma lei sarebbe protesa verso di lui, comunque. La sua fica nuda, brilla umida tra le cosce aperte. Le dita dell'uomo si sono intinte in quel succo, si sono impastate della voglia di lei e l'hanno portata alla bocca, alla lingua più volte. L'eccitazione dei due strappa brandelli alla coscienza, adesso. Lo sguardo si vela a tratti e si deglutisce a secco. Appena dietro una curva l'uomo ferma l'auto sul ciglio della strada, dove la carreggiata si allarga in una piccola ansa delimtata da una siepe di acacie. Oltre la siepe, uno spiazzo e poi il muro. Al di là del muro si apre la vallata ampia e il lago color del bronzo. Dentro l'abitacolo i due si baciano, senza impazienza. Un bacio lento, quasi tenuto a freno, per non perdere alcun sapore e alcun tremito. Assaporano piano, si abbeverano di saliva gonfia di testosterone e di ossitocina, scambiandosi il respiro.
- Girati verso il finestrino e dammi le natiche – la voce dell'uomo è calda, intransigente.
La donna si accuccia sul fianco destro, le ginocchia piegate contro il petto, il culo che sporge oltre il sedile, il collo piegato innaturalmente, la spalla e la guancia contro lo schienale.
Non c'è sottomissione in lei, ma offerta.
Lui le solleva la gonna: lo fa lentamente, alzando il sipario su quel culo che strazia il suo desiderio. Non è un imprevisto. L'aveva chiesto lei la notte prima, dopo che molte volte lui l'aveva attraversata con impeto, con dolcezza, con furia, incontrastato. Gliel'aveva detto nel dormiveglia: - Voglio una sodomia dolce, lenta, affiatata –
Lui si era scostato per guardarla e aveva posto la sua condizione:
- All'aperto, in strada -
Lei si era accoccolata più profondamente nel porto del suo fianco e aveva risposto con un mugolio che aveva lasciato l'uomo incerto sulla sua complicità. Lui si era addormentato diviso tra la sua eccitazione e la sua disapprovazione e dal risveglio non aveva più accennato a quell'idea. Avevano camminato a lungo, avevano mangiato sulla tovaglia a quadretti rossi di una trattoria scelta per caso, imboccandosi con le mani. Avevano lasciato crescere l'eccitazione nel silenzio e nell'apparente noncuranza. Ma quell'immagine si era conficcata profondamente nel desiderio di entrambi.
L'uomo, senza separare le natiche, s'insinua nel solco e cerca con le dita l'anello di velluto. Lo vede, senza guardare: è rosa. Asciutto, morbido, setoso al tatto. Lo sfiora in punta di dita, poi lo guarda, goloso. Sa che a lei piace quel momento. Sa prolungarlo, tra meticolosità e distacco. Lo prepara con la lingua, che le accorcia il respiro, fino allo scatto del tappetto del lubrificante, che la fa trasalire. La lubrifica con le dita, si spiana la strada. Lei spinge indietro per averle a fondo.
–Tutto deve scorrere bene– la voce dell'uomo strappa alla donna un gemito di eccitazione.
-Va' contro il muro e aspettami- le dice, abbassandole la gonna a coprirla.
Lei esce dall'auto senza esitazioni. Arriva al muro e vi si appoggia, Con le cosce, il ventre e le mani aderenti al paramento di pietre aguzze guarda il lago e pensa ai piccoli segni rossi che si ritroverà, dopo, contro le cosce e nel palmo delle mani. Cerca dentro di sé l'equilibrio tra la sensazione nullificante e il bisogno di essere presente che quell'attesa le procura. Sente i passi dietro di sé e poi il suo corpo contro il corpo, che a pensarci la copre tutta, da sopra a sotto, da destra a sinistra, le mani di lui sulle sue mani e la sua erezione che s'insinua tra le natiche. Lei, lo fa per istinto e per desiderio, spinge il culo indietro e reclina la testa, trovando l'appoggio della sua spalla. Lui la morde, alla base del collo, prende tra i denti la corda tesa del trapezio; lo fa come il maschio dell'animale morde la femmina, non per infliggere dolore ma per possesso, le mani ad afferrarle i polsi. Poi, costringendo le sue braccia dietro le reni, le sussurra nell'orecchio:
-Voglio incularti, me lo permetti?- e lei, abbandonata contro di lui, soffia un debole sì.
-Non ho sentito-
-Sì-
-Come? Non ho sentito. Vuoi farti inculare?-
La voce di lei adesso è un grido: -Sì, inculami, mettimelo nel culo senza pietà-
Nemmeno se ne accorge, tanto è aperta. Sente la forma nota che la dilata, lo spasmo dello sfintere che viene forzato e una specie di languore, che viaggia dal ventre all'esofago. Il dolore l'attraversa quando lui incomincia a muoversi, cadenzato, implacabile. Quel dolore che sale, la sommerge, a dirle lui dov'è. Dentro la profondità delle sue viscere, dentro, più dentro, in fondo all'anima. All'improvviso la donna volta la testa verso un rumore e due fari gialli, gialli come occhi di bestia sorpresa nel buio, che sbucano dalla curva, la illuminano a giorno. E quel pensiero, - ci vedono - , è troppo veloce, troppo repentino per pensarci, subito sopraffatto com'è dall'ansimo corto che le giunge sulla nuca, mentre arretra col bacino in controspinta ad ogni spinta, le braccia tirate indietro in una posa oscena, lei, arco di carne dal quale lui scocca frecce di foia. Perché lui è foia, pura foia, mentre l'allarga e affonda nel suo culo, incontrastato e sereno.
-Ti sto inculando, Claudia-
E lei si tende, si fa arco, perché desidera quanto lui, forse più di lui, che lui sia capace di aprirla. Fino a toccare con la punta del cazzo il suo nucleo aggrumato, denso, nascosto in fondo, indifeso, perché lui, lì, possa morirci contratto.
Le libera le mani, vuole spingere forte, ora. La tiene, cingendole la vita, i pollici aperti che si toccano e insieme premono sullo spazio tra due vertebre, le mani saldamente ancorate alla curva dei fianchi, in una presa che prende, che quasi si fa morsa. La tiene e l'attira a sé, la guida, entra e esce dal suo culo come dal mondo, un mondo da invadere, a cui impedire di sottrarsi a lui.
Nelle iridi le esplodono tutti i colori che l'imbrunire ha stinto, quando lui le semina dentro il proprio caleidoscopico orgasmo, avvolto dalle sue contrazioni. E' il rito corsaro del possesso, che strappa e morde e saccheggia, che lenisce e placa. Lo riconoscono nell'abbraccio che viene dopo: le mani sulle mani, le braccia lungo le braccia, il torace che si curva ad avvolgerla, a coprirla, a chiuderla, lui ancora dentro le sue viscere, tutto il loro peso, unito, a pesare sul suo monte di venere. Contro il muro.
A colui che sa
Jihan