L'incolmabilità del desiderio mira intrepidamente alla vita, l'ho sempre pensato. Così come il dolore è infinito quando la morte non è solo parvenza né soltanto immaginazione, quando il pensiero vi transita senza via d'uscita.
Davanti al mio uomo, la primavera scorsa, all'estremità opposta dell'infelicità che mi rendeva zoppa, ho sostenuto l'amore ed allontanato ogni giorno l'abisso che ci divorava. Mi è riuscito, però, perché non c'era scelta: lui non poteva opporre nessuna resistenza.
Il suo corpo, simulacro d'amore e di malattia, compresi che era il canale attraverso il quale avrei visto la morte spronare la gioia.
Un paradosso.
Sacrificare il discernimento è stato infinitamente facile, leggero. Le consuetudini che echeggiavano seguivano un suono lontano, si ammucchiavano dentro di me in modo disordinato.
L'aldilà rispetto all'aberrazione profonda era il desiderio che conservava la vita.
La vergogna, era sapermi a sopravvivere mentre le sue spalle piegavano per l'annientamento e per la fatica.
Inconcepibile, senza di lui, il piacere si accorgeva dell'adattamento alla natura: mi aggrappai alle sue fattezze d'ossa e, più che ormai alla carne e alla pelle olivastra, portai il godimento alla vita ospite di quel corpo. Festeggiai con lui la continuazione del legame.
Nella morte e con la morte, dicevo, non c'era mai stata altra convinzione più potente di quella.
Ero vinta dalla verità stessa insostenibile e sentivo la passione al suo grado più estremo.
Ho sempre creduto che sotto la superficie del giudizio, in effetti, l'erotismo avesse le sue stravaganze. Così l'estasi, avevo capito, stava abbassando gli scudi, per farsi beffa non solo dell'osceno innominabile, da sempre riconosciuto, ma anche dello scandalo che avrei dato e del ripudio di tutto ciò che era anomalo e mostruoso.
Mostruoso, già! Non avrei saputo definirlo meglio io stessa.
La bestialità dell'atto che stavo consumando era un'abiezione valida, ma l'inconfessabile autonomia delle mie gambe sforbicianti sul suo corpo deformavano l'inquietante aspirazione in un risveglio alla vita.
Il mio uomo, un involucro, quasi sul punto di restare vuoto, non lo considerai ignobile o profano perché avrebbe smesso di esistere. Riflettei anzi e mi dissi che la morte è contraria al mondo della ragione e dell'identità, ma il gioco non smette di scatenarsi nell'istante in cui la trascendenza è immanente. Non si poteva spiegare. Non era gestibile.
Tutto era finalmente chiaro, capii quanto fosse stato inutile ammaestrare la vita.
Il mio uomo non respirava, ma il piacere si affermava come una cicatrice cerebrale. La malattia non era che un movimento diabolico a decomporre la materia quanto la razionalità di ogni cosa.
Il senso impuro del mio sesso che si spaccava sul suo omonimo, strisciando e rispondendo, separava in modo uguale due verità opposte: il sacrilego e il trascendente al divino che si compensavano.
A quel punto, la mia più grande esigenza fu il superamento della dualità e la commistione rassicurante di me con lui in un dialogo muto.
Il dolore aveva dato appello alla vita, lo scivolamento dell'orrore nella passione aveva riportato la mollezza del suo sesso alla tensione.
La morte era stata destata secondo un processo opposto, orgasmico, che avrei potuto protrarre all'infinito.
Asservita dal capovolgimento causato dalla malattia, la coscienza, non aveva permesso che la febbre dell'infermità sfuggisse. Volli sottomettere l'infezione al valore vivo dell'esistenza.
Ricordavo la - promessa - :
- Tu Viola, giura d'amarlo... in salute e in malattia...
finché morte non vi separi - .
Allora compresi, il Diavolo era sacro quanto Dio.
LaPassiflora